Immaginate di essere ai ferri corti con la carrozzeria sotto casa vostra. Accettereste che il giudice della lite sia uno dei dipendenti della carrozzeria, o un ex dipendente in pensione, o lo storico avvocato del carrozziere? La domanda può sembrare provocatoria e un po’ strampalata.
Ma descrive perfettamente quello che accade nella giustizia tributaria italiana. I progressivi aggiustamenti della legge che regola la materia (la 546 del 1992 in vigore dal ’96) non hanno infatti risolto il conflitto d’interessi genetico in cui versa la giustizia tributaria in Italia. In teoria dovrebbe garantire un giusto processo al cittadino che non ritiene corretti i rilievi dell’Agenzia delle entrate; in pratica, le commissioni giudicanti dipendono dal ministero dell’Economia. Esattamente come l’Agenzia delle Entrate guidata da Attilio Befera e la società di riscossione Equitalia.
La situazione è peggiorata dopo le modifiche introdotte nel luglio 2011 dal ministro Giulio Tremonti, nell’ambito di una delle ultime manovre approvate dal governo Berlusconi. Fino ad allora le commissioni tributarie provinciali e regionali erano presiedute da magistrati in servizio provenienti da corti civili o penali, e quindi privi di specifica preparazione in materia tributaria, affiancati da altri due giudici a latere scelti fra gli iscritti agli albi professionali ed ex dipendenti dell’amministrazione finanziaria in pensione. Era un assetto certamente criticabile, anche alla luce del fatto che l’incarico nelle commissioni tributarie era (e rimane) un secondo lavoro e non l’unica occupazione dei componenti delle commissioni. Ma era un assetto che aveva al suo interno un equilibrio, visto che nelle commissioni a bilanciare la presenza di ex dipendenti dell’amministrazione finanziaria c’era un commercialista o un avvocato (cfr. Chi ha deciso che giudici e avvocati sono inaffidabili?).
L’intervento di Tremonti ha stabilito però un’incompatibilità assoluta per coloro che «in qualsiasi forma, anche se in modo saltuario o accessorio ad altra prestazione, esercitano la consulenza tributaria, detengono le scritture contabili e redigono i bilanci, ovvero svolgono attività di consulenza, assistenza o di rappresentanza, a qualsiasi titolo e anche nelle controversie di carattere tributario, di contribuenti singoli o associazioni di contribuenti, di società di riscossione dei tributi o di altri enti impositori». Incompatibilità estesa anche ai coniugi, conviventi e parenti. Una scelta più che corretta, in linea di principio. Ma che in assenza di una riforma complessiva finisce per sbilanciare il sistema a favore dello Stato. Non solo, il paradosso della “riforma Tremonti” è di puntare all’innalzamento del grado di incompetenza dei giudici. Il decreto legge del 6 luglio 2011 (art. 39) stabilisce che i posti da conferire nelle commissioni tributarie regionali «sono attribuiti in modo da assicurare progressivamente la presenza di due terzi dei giudici selezionati tra i magistrati ordinari, amministrativi, militari e contabili, in servizio o a riposo, ovvero gli avvocati dello Stato a riposo».
Non è infrequente trovare ex dipendenti del ministero delle Finanze sia nelle vesti di rappresentanti del fisco sia nel ruolo di giudici, come raccontano molte testimonianze dirette degli avvocati tributaristi. Il problema è noto da anni: già nel 1997 l’allora direttore generale delle Entrate, Massimo Romano, in seguito all’approvazione del codice di comportamento dei pubblici dipendenti varato dall’allora ministro della funzione pubblica Sabino Cassese, prometteva la rimozione dei profili giudicati poco imparziali.
Nelle commissioni provinciali e regionali, rispettivamente primo e secondo grado di giudizio, i magistrati sono in genere civili o penali che assolvono questo servizio part time, senza una vera specializzazione su temi di fisco. Mentre i membri delle commissioni sono “tecnici” non tributari: ex funzionari delle dogane, periti agrari, ingegneri, architetti, agronomi, dirigenti della Guardia di finanza in pensione. Professionisti in grado di redigere una perizia, ma non una sentenza, e tanto meno di orientarsi nella giungla della legislazione tributaria. «Sono persone che fanno altri lavori e poi fanno domanda per diventare giudici tributari. Non si tratta di un mestiere ma di un lavoro part time», spiega Giuseppe Zizzo, direttore della Scuola di diritto dell’Università Cattaneo di Castellanza, che aggiunge: «Il reclutamento, poi, avviene senza nessun esame di conoscenza del diritto tributario. Per esempio un magistrato ordinario anziano può diventare magistrato tributario ottenendo un altissimo punteggio in graduatoria, senza aver mai studiato diritto tributario, nemmeno all’università». Secondo gli ultimi dati ufficiali, l’età media dei giudici tributari è di 64 anni.
«Nonostante gli sforzi del legislatore, nel corso degli ultimi 10-15 anni, per introdurre strumenti deflattivi come l’accertamento con adesione e via dicendo, da un lato abbiamo taluni accertamenti che cercano di aumentare le pretese per portare più soldi alle casse dello Stato, dall’altro alcune sentenze scritte male in maniera affrettata, che quindi danno il destro a una maggiore possibilità di rimanere in contenzioso», spiega a Linkiesta Stefano Petrecca, partner dello Studio Di Tanno.
Il tempo medio per formulare un giudizio di primo grado (dati Mef 2011) è circa due anni e mezzo (903 giorni), tra Nord e Sud lo scenario è variegato. Si va dai 264 giorni di Brescia, ai 441 di Milano e ai 328 di Torino, fino ai 1009 di Roma e ai 2020 di Palermo. Il vero collo di bottiglia, sempre a guardare le cifre del ministero, è il terzo grado di giudizio, cioè la Cassazione. La Suprema corte non solo impiega da tre a cinque anni per pronunciarsi, ma dà anche quasi sempre ragione all’Agenzia delle entrate, nel 70% dei casi, secondo quanto riferito da Befera nel corso dell’ottobre 2011. Perché? A voler essere maliziosi, perché i cassazionisti sono di ruolo e fanno il tifo per il fisco. Al contrario, i dati storici sugli esiti dei procedimenti nelle commissioni provinciali mostrano che la percentuale di giudizi favorevoli scende al 40 per cento.
«La Cassazione, che dipende dal ministero della Giustizia, non è un organo pro contribuente, nell’ultimo decennio è stata molto attenta alle esigenze dell’erario e del fisco», ammette Zizzo. I giudici della quinta sezione, incaricata di esaminare le pratiche tributarie, sono magistrati che hanno passato la vita ad occuparsi di altro, e che a un certo punto, in occasione del grande salto di carriera, si ritrovano fra le mani questioni tributarie. Non molto volentieri, a giudicare dal fatto che, non appena possono, chiedono di essere trasferiti alle sezioni civili o penali.
A volte le decisioni della Suprema Corte destano sorpresa, se non addirittura sconcerto, fra gli esperti. E in almeno un caso hanno provocato anche imbarazzo a livello internazionale. Accade così, dieci anni fa, nella sentenza Philip Morris, in cui la Cassazione interpretò alcuni passaggi del Commentario al modello di convenzione dell’Ocse in un modo che strideva apertamente con principi condivisi a livello internazionale in materia di doppia imposizione. Così nel 2005 il comitato fiscale della stessa Ocse fu costretto a intervenire per fornire un chiarimento interpretativo: sfavorevole alle posizioni della Cassazione e, ma è appena il caso di precisarlo, alle pretese del fisco italiano.
La Federcontribuenti non ha mancato di far notare la strana concezione della giustizia tributaria che emerge dalle parole utilizzate da Daniela Gobbi, allora presidente del Consiglio di presidenza dei giudici tributari (il Csm dei magistrati tributari), per salutare la nomina di Mario Monti alla presidenza del Consiglio: «Signor Presidente, vivissime congratulazioni per il conseguimento della prestigiosa nomina, anche in qualità di Ministro dell’Economia e delle Finanze. Le chiedo di essere ricevuta per segnalarLe i problemi più urgenti ed in corso di esame, della giustizia tributaria, funzione di primaria importanza per l’approvvigionamento finanziario dello Stato». Un concetto già criticato due anni fa con altre parole da Mario Cicala, consigliere della Cassazione, in un convegno in occasione dei 10 anni dello Statuto del contribuente: «Il giudice è un artigiano che fabbrica la sentenza secondo il suo gusto e a volte secondo il suo gusto di contribuente che non può evadere». Tant’è che «se ha la sensazione che una determinata sentenza faccia crollare il gettito, può anche non prenderla». Si determina così una commistione tra questioni di giustizia fiscale e considerazioni politiche sul bilancio dello stato.
Discorso diverso quando dalle verifiche delle Fiamme Gialle o delle Entrate emergono profili penali. Nota ancora Petrecca: «Quando viene fatta una verifica e si scoprono dei veri o presunti problemi che darebbero luogo a problematiche di carattere penale tributario sia i funzionari dell’Agenzia delle Entrate che la Gdf hanno obbligo di segnalazione della notizia di reato alle procure». Tuttavia, quest’obbligo giuridico di segnalazione dovrebbe passare per un vaglio già da parte del pubblico ufficiale, perché i pubblici ministeri sono subissati di segnalazioni di notizie di reato, di cui solo una piccola parte viene alla fine presa in considerazione. Come se non bastasse, il nuovo redditometro «certamente aumenterà le liti perché utilizza l’accertamento induttivo che funziona attraverso indizi che vanno valutati, ed è probabile che per tale valutazione si finisca per andare davanti ad un terzo, ossia il giudice», conclude Petrecca.
Vie d’uscita? Da anni si susseguono, invano, diverse proposte di riforma, che fondamentalmente girano attorno a due punti fondamentali. Primo, sganciare la giustizia tributaria dal ministero dell’Economia, in modo da garantire un giusto processo: cioè, giudici indipendenti; secondo, superare l’attuale sistema di incarichi part time: cioè, giudici competenti in materia fiscali. Tuttavia, osserva il professor Zizzo, «avere un giudice non specialista della materia può anche giovare all’amministrazione finanziaria. Il concetto di base è che quando si muove, l’amministrazione finanziaria lo fa legittimamente, per cui una magistratura tributaria non particolarmente qualificata può essere più tollerante, perché non avendo gli strumenti per giudicare le questioni tecniche, nel dubbio dà ragione all’amministrazione finanziaria e torto al contribuente».
Nel tempo, però, la situazione si è calcificata fino a determinare la nascita di una vera e propria lobby che affossa i tentativi di riforma. Le ragioni? Interessi di bottega. Un componente di commissione tributaria può arrivare a guadagnare fino a 400-500 euro al mese, mentre per i presidente si arriva a 100mila euro l’anno. Quanto basta per determinare una resistenza al cambiamento. «È necessario potenziare le commissioni con giudici specializzati che facciano questo di mestiere – osserva Carlo Garbarino, professore di diritto tributario nell’Università Bocconi di Milano – Siamo davanti a una questione molto forte, aperta da quasi trent’anni, circa la natura giurisdizionale delle commissioni tributarie, in breve: più qualità nei giudizi e più quantità in termini di giudici». Dopo un ventennio in cui il tema del giusto processo è stata la cosa più cara a un ex imprenditore arrivato al governo, è arrivato il momento che i principi di un giudizio equo e imparziale siano garantiti ai molti imprenditori e cittadini che si trovano a litigare con l’Agenzia delle entrate. Senza per questo essere automaticamente dei biechi evasori.