Ci sono molti modi di affrontare e realizzare un “viaggio della memoria”. Uno dei modi è quello di andarci in treno, ripercorrendo le tappe e rivivendo una parte delle emozioni di altri che in altre condizioni fecero quel viaggio, per molti di loro, senza ritorno.
Quella condizione di viaggiare apparentemente “in massa” come gli uomini e le donne che furono oggetto di deportazione, ma in realtà proponendo un percorso “insieme” (la distinzione è di Elena Bissaca operatore culturale di “Terra del Fuoco”, uno degli organizzatori dei “treni della memoria”). Un percorso, cioè, dove ciò che conta non è solo varcare un cancello all’arrivo, ma soprattutto affrontare nel tempo del viaggio – sia di andata che di ritorno – una riflessione su un’esperienza, portandone a casa anche ciò che oggi ci riguarda direttamente, non è un atto banale.
Secondo me bisognerebbe rifletterci perché uno dei rischi che intravedo nella pratica dei “viaggi della memoria” è il ripetersi, con segni diversi – su cui mi soffermerò tra poco, di un’esperienza che ha attraversato l’intero Novecento. E bisognerebbe rifletterci perché in quel viaggio vedo due possibilità: la prima è quella di una ricostruzione artificiale di una scena del passato, la seconda è quella di una riflessione che riguarda l’uso politico del passato. Nella fattispecie un uso politico che non sia un abuso. Uso che significa, prima di tutto che per riflettere su quell’esperienza e su quel tempo non abbiamo sempre più bisogno di storia e non necessariamente di memoria. O meglio abbiamo bisogno di racconti, di storie, ma poi abbiamo soprattutto bisogno che ci sia una visione del fatto storico capace di confrontarsi col presente.
È indubbio che i viaggi della memoria hanno un rapporto col presente, con il nostro presente di oggi. Ma ce l’hanno secondo due modalità e quelle modalità dobbiamo avere ben presenti se il nostro obiettivo deve e vuol essere una riflessione a partite dall’oggi. Altrimenti il rischio è che quell’oggi, come è accaduto nei giorni di Srebrenica nel luglio 1995, sia evidente a tutti, ma nessuno lo legga come il ritorno di qualcosa che c’è già stato, ma lo osservi come una cosa lontana, che non parla a e per noi. E dunque alla fine, cada fra le seggiole, come si dice in yiddisch: una cosa che tutti vedono, ma nessuno raccoglie, perché pensano che altri lo faranno, facendosene così carico. Siccome appunto rimane lì, alla fine essa rimane muta.
Secondo una informazione pubblicata il 4 gennaio scorso sulla pagina web ufficiale del museo di Auschwitz Birkenau – www.auschwitz.org -, 1,43 milioni di persone hanno visitato il sito nel corso del 2012. E la nota prosegue: «Si tratta di un record nella storia del museo, lunga 65 anni. Da sei anni, il numero di visitatori supera regolarmente il milione».
Circa mezzo milione di polacchi hanno visitato il museo l’anno scorso, 150mila britannici, 100mila statunitensi, 85mila italiani e 75mila tedeschi. Da Israele sono arrivati 68mila visitatori, dalla Francia 62mila, dalla Spagna 54mila, 48mila dalla Repubblica ceca. Spiccano anche i 46mila arrivati dalla Corea del Sud. Non si hanno dati sull’America iberica, sull’India e dai paesi arabi. Così come non si hanno dati certi, comunque la nota non li indica, relativi ai seguenti paesi: Russia, Repubbliche baltiche, Ucraina, Bessarabia, Romania, Bulgaria e, dato che forse sarebbe molto significativo visto il clima politico interno oggi, Ungheria.
È interessante inoltre che la maggior parte dei visitatori non scelgano un percorso individuale, ma anche se arrivano in un viaggio individuale, poi scelgano l’opzione della visita guidata. Perché così tante persone (ma anche quale geografia culturale esprimono, non è memo rilevante) vanno lì e che cosa indica questa sorta di pellegrinaggio collettivo?
Il viaggio ad Auschwitz rientra in un’esperienza che assomiglia per molti aspetti al pellegrinaggio, un’esperienza che nel corso del Novecento ha avuto due modalità: il primo è quello classico che individua luoghi che ricordano o simboleggiano atti e eventi in cui si riconosce autorevolezza alla propria identità religiosa. Il secondo è il pellegrinaggio politico ovvero il viaggio verso i luoghi dove il regime politico si conforma ai propri ideali per cui si va in un luogo per vivere in anticipo il futuro. È un’esperienza che ha attraversato gran parte del Novecento: Unione Sovietica, Cina, Cuba, ma a anche Germania nazista, Italia fascista sono stati meta di pellegrinaggio politico da parte di adepti entusiasti che andavano lì, in quei paesi, per vedere il futuro, per dire che un altro mondo era possibile e che loro potevano testimoniare di averlo visto funzionare.
Poi quei “paradisi” sono crollati, e allora si è posto il problema di individuare altri luoghi dove riversare ansie. Solo che questa volta il problema non era il futuro (perché il futuro sognato aveva tradito), ma il passato. Meglio il passato da non ripercorrere. Un passato che si va a vedere non perché si spera che un altro sia mondo sia possibile, o per vedere ciò che si desidera, ma per andare a vedere ciò che non si vuole, per incontrarsi con ciò che deve rimanere passato.
Non è vero che sono state necessarie due generazioni di distanza dallo sterminio per riuscire a misurarsi con quel fenomeno, perché non era facile confrontarsi con quel fatto. È vero che affinché quel fenomeno entrasse a far parte del nostro bagaglio culturale quotidiano occorreva che contemporaneamente venissero meno o non fossero più attraenti quei luoghi del pellegrinaggio politico – e dunque quelle ideologie ed esperienze che lo incarnavano.
È così che lentamente prende corpo il viaggio di memoria nell’esperienza collettiva e si diffonde non dappertutto, ma laddove è in crisi il pellegrinaggio politico verso il futuro. Ovvero riguarda paesi e realtà politiche, che vivono la crisi di un progetto. Quelli che hanno un forte tasso di ideologizzazione o che credono di avere la forza del destino con sé, non vanno ad Auschwitz (ovviamente inclusi anche quelli che ritengono che Auschwitz sia un’invenzione o un tema di propaganda. Ma quella è un’altra storia.)
È un processo che si colloca nel corso degli anni Ottanta e che occorre considerare se si vuol comprendere cosa ha significato fare i conti alla fine del Novecento con il senso del vissuto storico collettivo successivo alla seconda guerra mondiale. Ma anche, e forse soprattutto, per chiedersi che significato assume oggi il viaggio di memoria, quale vuoto riempie, quale domanda soddisfa e in che misura sia adeguata la sua offerta. Soprattutto se questo trend durerà o se, riscoperta una nuova visione del futuro, non riprenda piede una diversa meta di pellegrinaggio e dunque si smetta di praticare il passato.
Alternativamente il problema e il profilo di quei viaggi della memoria è quello di ripercorrere quella esperienza pensando all’oggi: ai respingimenti; ai morti sui barconi, alla trafila di sfruttamento di quei corpi in vendita o in ostaggio. Lì si pone un altro scenario che ci coinvolge, ma che non è solo visita museale o sguardo verso il passato.
È una diversa scommessa sulla percezione del passato, ma anche sulla didattica della storia e sul senso di coinvolgimento, anche emozionale, di generazioni (giovani, ma anche meno giovani) che il presente ha rimesso, in forma inquieta o interrogativa, a ripercorrere le strade che altri hanno percorso; a ripetere i cammini che altri in condizioni diverse e con “altri timori” o altre “sensazioni” hanno vissuto.
Questo secondo profilo è meno attraente del primo. Certamente è meno consolatorio, stabilisce che quel tempo lontano non è così lontano (con buona pace del partito del “Mai più!”). Per questo è più inquieto e inquietante. Chiede che altri aspetti entrino in questione. Uno mi interessa sottolineare. In maniera indiretta e inaspettata, questo secondo profilo ha l’insolenza di porre il problema se la storia serva.
A lungo chiedersi “A che serve studiare la storia?” è apparsa una domanda provocatoria. Domanda proposta da chi riteneva che lo studio del passato fosse un lusso che solo il benessere o la relativa tranquillità, o il narcisismo auto celebrativo poteva giustificare. Improvvisamente forse si scopre che sapere il passato, conoscere la storia, soprattutto non fidarsi solo della memoria, serve e a capirci di più e a farsi delle domande più appropriate, non solo sul passato, ma anche sul presente, quello davanti a noi, che molti pensano essere muto o incomprensibile o enigmatico.
È una vecchia storia, si dirà. È vero, ne convengo. Ma riscoprirlo non è dannoso, soprattutto in epoca di egemonia della memoria.