Il programma della Cgil? Sembra quasi quello del Pd

Il programma della Cgil? Sembra quasi quello del Pd

Mario Monti è tornato ieri ad accusare la Cgil di avere ostacolato e impedito con i suoi veti conservatori una seria riforma del lavoro. E la confederazione sindacale guidata da Susanna Camusso sceglie di replicare alle critiche del capo del governo con la propria Conferenza di programma dedicata alla presentazione di uno straordinario Piano del Lavoro. Un programma organico e vasto la cui ambizione è “restituire un senso al ruolo produttivo dello Stato, alla centralità dell’intervento pubblico come motore dell’economia”. Le sue pagine disegnano l’orizzonte di una nuova programmazione economico-sociale, un vero e proprio New Deal in grado di prendersi cura e carico dei bisogni collettivi, di governare e orientare tutte le energie produttive verso gli obiettivi di sviluppo fissati da una politica industriale frutto della più ampia condivisione delle forze sociali. È una prospettiva che nega alla radice i pilastri del modello liberale-liberista imperniato sulla dispersione e diffusione molecolare del tessuto produttivo e sulla competizione spontanea e imprevedibile tra soggetti privati regolata dallo Stato.

Perché lo Stato, osserva Susanna Camusso illustrando il documento ai rappresentanti e delegati della Cgil, agli studiosi e alle personalità politiche intervenute nelle assise, può essere datore di lavoro di ultima istanza, generatore e produttore di servizi pubblici e di beni strategici. Perché in tal modo può essere produttore di sviluppo oltre che fattore di riduzione delle diseguaglianze, baluardo contro lo svilimento e la dequalificazione della nozione di lavoro sancita dalla Carta costituzionale. E il progetto elaborato e promosso dalla confederazione di Corso d’Italia trova una convinta accoglienza nella riflessione degli esponenti politici progressisti presenti e intervenuti, da Pier Luigi Bersani a Nichi Vendola, da Fabrizio Barca a Giuliano Amato. Ma è soprattutto nelle parole pronunciate dal segretario del Partito democratico che si evince la piena consonanza di temi e di accenti fra le tesi della principale confederazione sindacale italiana e la formazione politica candidata a guidare il paese nella prossima legislatura. Un allineamento che rasenta l’identificazione programmatica, e conferma in maniera cristallina la definitiva trasformazione culturale e ideologica del Pd in una forza compiutamente socialista, che ha accantonato per sempre le originarie velleità liberali e clintoniane.

Il Piano per il lavoro presentato da Camusso trae una chiara e diretta ispirazione nell’esperienza storica del documento concepito e presentato tra 1949 e il 1950 dall’allora segretario generale della Cgil Giuseppe Di Vittorio al congresso di Genova. Grazie a una straordinaria consonanza di contenuti e di accenti con un documento così lontano nel tempo, i temi sollevati da Giuseppe Di Vittorio vengono oggi ripresi in nome della “priorità assoluta del lavoro, della sua creazione e della sua difesa, condizioni indispensabili per ogni stagione di crescita e di benessere”. Ma come si produce tale “medicina preziosa e vitale”, quali sono le strategie per far nascere il “lavoro vero e di qualità” prefigurato nel programma della confederazione di Corso d’Italia? Le tesi enunciate da Susanna Camusso si muovono in un orizzonte quasi del tutto antitetico al pacchetto di proposte illustrato due giorni fa dal presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, che pure, al contrario di Monti, aveva osservato come la Cgil non rappresenti un ostacolo alle riforme e agli interventi per la crescita”.

La “terapia d’urto” per il paese delineata dal numero uno di Viale dell’Astronomia è fondata su una visione profondamente liberale classica del ruolo dello Stato, “che deve rientrare nel perimetro dei suoi compiti fondamentali e per primo deve pagare i propri debiti rispettando i diritti dei cittadini e delle imprese”. Se le premesse da cui prendono spunto i responsabili delle due organizzazioni sociali trovano un comune motivo di ispirazione nella necessità di non rassegnarsi allo scenario di recessione e di stagnazione prodotto dal rigore di bilancio, le direzioni indicate per fuoriuscirne restano in gran parte alternative. Nelle “scelte forti, immediate e coraggiose” invocate dal fondatore della Mapei gli obiettivi prioritari sono l’immediata restituzione dei 48 miliardi di debiti commerciali accumulati da Stato e dagli enti locali verso il mondo delle imprese fornitrici, la riduzione della pressione fiscale su aziende e lavoro al 42 per cento, la diminuzione della spesa pubblica corrente dal 43 al 37 per cento del Prodotto interno lordo, il taglio dell’8 per cento del costo del lavoro nell’industria manifatturiera, l’abolizione dell’Imposta regionale sulle attività produttive, l’eliminazione delle componenti fiscali presenti nelle bollette dell’energia. E la copertura per realizzare un simile programma viene trovata in un drastico snellimento della burocrazia, nei tagli e nella razionalizzazioni della spesa pubblica, nell’abolizione delle province, nella privatizzazione di una parte del patrimonio pubblico. Interventi che devono essere “accompagnati dalla rimozione degli ostacoli al fare impresa e alla giusta flessibilità del mercato del lavoro che la riforma approntata da Elsa Fornero non è stata in grado di liberalizzare”.
Il Piano per il lavoro della Cgil rovescia completamente i passaggi logici che animano la mentalità liberale-liberista.

Non è più l’abbattimento della pressione fiscale sul tessuto economico e sulle famiglie a creare il terreno propizio per le possibilità di crescita e di benessere diffuso. Bensì un ambizioso e organico intervento statale nel tessuto produttivo, finalizzato a creare infrastrutture strategiche, a promuovere investimenti di interesse collettivo e a orientare le risorse di tutte le energie economiche. È muovendosi su tale presupposto apertamente keynesiano che i redattori del documento di Corso d’Italia pensano di destinare nel prossimo triennio 50 miliardi di euro pubblici, di cui 15-20 miliardi alla creazione diretta di posti di lavoro, 5-10 miliardi al sostegno dell’occupazione e agli ammortizzatori “per uno Stato sociale davvero universale e impegnato a garantire anche chi oggi è privo di tutele”, 4-10 miliardi ai progetti di opere strategiche, e 15-20 miliardi alla riduzione della tassazione sui redditi del lavoro dipendente medi e bassi. Strada privilegiata per reperire le enormi risorse previste nel piano e pilastro della filosofia economico-sociale della Cgil è una riforma organica del sistema fiscale imperniata su una forte progressività delle imposte e sull’adozione di una patrimoniale sulle grandi ricchezze immobiliari e finanziarie, la cui entità e soglia di partenza tuttavia non viene ancora specificata. Affiancate a un recupero strutturale dell’evasione realizzato grazie a misure miranti alla piena tracciabilità dei rilevanti flussi monetari e all’adozione della valuta elettronica, tali provvedimenti, che si aggiungono ai tributi oggi in vigore come l’Imu, l’Irap, la Tarsu, possono produrre un gettito di almeno 40 miliardi annui. Altri 20 miliardi di risparmi strutturali verrebbero invece generati dalla riduzione dei costi della politica e degli sprechi, da un utilizzo programmato e lungimirante dei fondi strutturali comunitari, e dalla redistribuzione della spesa pubblica. Riqualificazione, dunque, e in nessun modo riduzione. Poiché il taglio della spesa pubblica, spiega Camusso, “appartiene alla retorica fallimentare di una lunga stagione di dogmi neo-liberisti, alimentati dall’illusione della piena autonomia del mercato e della sua capacità naturale di autogovernarsi, dall’ossessione per il pericolo del debito pubblico e della volontà pervicace di limitare e ridurre le dimensioni e i compiti dello Stato”.

Sulla base delle previsioni di Corso d’Italia l’attivazione del Piano produrrebbe nel biennio 2013-2015 un incremento del 3 per cento sul tasso di occupazione, con un parallelo calo del livello di disoccupazione al 7 per cento nello stesso arco di tempo, e una crescita del prodotto interno lordo superiore al 3 per cento. Grazie alla forte spinta degli investimenti pubblici, +10,3 per cento nel triennio, aumenterebbero anche il reddito disponibile (+3,4) e i consumi delle famiglie (+2,2). Sarebbero questi i risultati di un’iniziativa maturata nella consapevolezza che “il lavoro non può essere precario e povero, nero e mercificato, al ribasso. Poiché si fonda su conoscenza e dignità e non può trasformarsi fonte di libertà a prigionia e imposizione autoritaria di contratti aziendali”. Ma perché l’occupazione costituisca l’antidoto al declino e affrontare le gravi diseguaglianze e le frantumazioni sociali dell’odierna precarietà, è indispensabile, evidenzia Camusso, “porre fine a una lunga stagione di politiche liberiste, anti-democratiche e anti-partecipative, come rivela la proliferazione dei partiti personali, dell’anti-politica e della tecnocrazia che hanno dilagato negli ultimi vent’anni”. Evitare di ricadere “nell’individualismo, nel degrado dell’etica civile, nel rifiuto della centralità del pubblico propria degli anni berlusconiani”, e allo stesso tempo tornare “a una dimensione elitaria e oligarchica imperniata sulla diseguaglianza strutturale prevalente nel periodo montiano”, sono le priorità assolute rivendicate dalla leader sindacale. La quale proietta in un’ottica sovranazionale la strategia per concretizzare i contenuti di una nuova agenda dei “beni pubblici”. E dunque chiede di superare un “fiscal compact che strangola le economie e le società a livello nazionale ed europeo e dai cui vincoli bisogna liberare le spese per investimenti, di costruire gli Stati Uniti d’Europa sul voto dei cittadini e su istituzioni democratiche non commissariate, di rendere comune il 20 per cento del debito pubblico dei paesi membri dell’Eurozona, di adottare gli eurobond e i project bond”. Solo così “è possibile “difendere il modello sociale europeo basato sulla centralità del pubblico, sul compromesso storico tra capitale e lavoro, sulla redistribuzione della ricchezza oggi concentrata nelle mani dei pochi e sottratta ai tanti”.

Rivendicando l’attualità del progetto coraggioso promosso oltre sessant’anni fa da Di Vittorio e che prefigurava con largo anticipo l’orizzonte di uno Statuto dei lavoratori, la numero uno della confederazione di Corso d’Italia ne rilancia un punto qualificante proponendo di mobilitare e favorire l’impiego del risparmio dei lavoratori a vantaggio di investimenti infrastrutturali pubblici anziché alla rete delle assicurazioni private. E ne suggerisce un esempio tangibile, pur non chiarendo le modalità con cui orientare una simile mole di denaro: “Le risorse detenute dai cittadini e lavoratori nella Cassa depositi e prestiti, garantiti dallo Stato, potrebbero finanziare l’attuazione di grandi opere pubbliche, come avviene da tempo e in forma considerevole in Francia e in Germania”.
Rivendicando la piena autonomia della Cgil nell’elaborazione e nella presentazione del Piano per il lavoro della confederazione, Susanna Camusso si è rivolta al mondo politico con parole inequivocabili: “Non vogliamo sentire frasi come ‘Il vostro programma è il nostro’, poiché siamo e saremo sempre parti e non partner rispetto ai governi politici”. E Pier Luigi Bersani nel suo intervento quella espressione la evita con attenzione pur esprimendo una assoluta condivisione verso la diagnosi e la ricetta delineata nelle pagine del documento presentato oggi. Lo fa rivolgendosi con accenti polemici ai suoi avversari politici antichi e nuovi, da Silvio Berlusconi e Mario Monti fino a Beppe Grillo: “La vostra iniziativa interpella chi come noi è impegnato nella concreta prospettiva di un’alternativa di governo non imperniata su meccanismi di personalizzazione anomali e patologici. L’alternativa di chi si fa interprete di una prospettiva riformista, popolare e non demagogica, antitetica al qualunquismo che è sempre reazionario e fascistoide”.
Nel Piano per il lavoro messo a punto dalla Cgil Bersani apprezza la capacità di “aver individuato le cause della crisi nell’affermazione egemonica di un regime fondato sulla diseguaglianza, sulla corsa affannosa all’arricchimento che ha soffocato il valore dei salari e delle retribuzioni”. Un fenomeno globale, che a suo giudizio ha provocato riflessi disastrosi nelle economie nazionali dei paesi europei e nello stesso futuro del Vecchio Continente.

Perché “se è vero che l’Italia di Silvio Berlusconi non ha fatto i compiti dopo l’adozione dell’euro, evitando di realizzare il percorso di risanamento finanziario e di bilancio, è altrettanto evidente che in Europa è prevalso il ripiegamento egoistico delle nazioni beneficiarie dell’integrazione monetaria, a partire dalla Germania di Angela Merkel. Riflesso che ha vanificato i legami di solidarietà politica ed economica sul piano comunitario, mettendo a repentaglio le prospettive di ripresa produttiva dell’Eurozona”. Al contrario, rileva il segretario del Partito democratico, si avverte più che mai la necessità di uno sviluppo equilibrato e condiviso, imperniato sull’adozione di provvedimenti come un grande programma di investimenti produttivi pubblici sottratto ai vincoli stringenti del Patto di stabilità, meccanismi di mutualizzazione del debito degli Stati membri, introduzione degli eurobond e dei project bond. Agendo in un’ottica europea ma tenendo conto dei problemi specifici e tuttora irrisolti della realtà italiana, “è indispensabile favorire e stimolare una domanda interna sostenibile, di qualità e non generalizzata, e quindi non affidata ai meccanismi di interazione spontanea e imprevedibile del mercato”. L’innovazione di cui parla Bersani dunque passa per l’adozione di una politica economica pubblica finalizzata al “buon lavoro, espressione di dignità e libertà, quota di trasformazione del mondo che spetta a ogni individuo, fonte della sua autonomia e indipendenza. Una finalità rispetto a cui l’austerità e il rigore di bilancio sono soltanto la premessa, non l’orizzonte”.

E nel disegnare il complesso di strategie da mettere in campo dal primo giorno di governo se le urne dovessero rivelarsi favorevoli allo schieramento progressista, Pier Luigi Bersani individua il bersaglio polemico privilegiato proprio nel capo del governo. “A Mario Monti, il quale non ha capito che le organizzazioni sociali non sono controparti avversarie dell’esecutivo anche quando esso è in campagna elettorale, voglio dire che non siamo a posto con la rete necessaria di ammortizzatori sociali, con gli interventi per i lavoratori esodati e per i disabili, con il disagio sociale legato alla crisi economica in atto”. Saranno questi, secondo il numero uno del Nazareno, i punti prioritari dell’iniziativa di governo della prossima legislatura, accanto agli interventi per la moralità della politica e la dignità delle istituzioni, ai temi dei diritti civili e alla lotta contro l’abbandono scolastico. E per restituire valore e dignità al lavoro “verranno rilanciate le capacità e valorizzate le eccellenze del made in Italy, contrastato il dumping salariale, incoraggiata la green economy e la cura del territorio, avviate piccole opere di interesse pubblico a livello territoriale e sulla base delle esigenze locali, da sottrarre ai vincoli del Patto di stabilità interno.

Misure che vanno accompagnate dalla riduzione dei tempi processuali civili e penali, dalla regolazione del mercato dei servizi, da una nuova distribuzione del tempo e del carico del lavoro, dalla riforma universalistica del Welfare”. Una riforma, spiega Bersani, per realizzare la quale è necessario far emergere la ricchezza al fine di valutare la base tributaria in grado di sostenere lo Stato sociale, accrescendo la progressività fiscale a favore dei redditi medio-bassi e incentivando l’uso del risparmio privato verso obiettivi di investimento produttivo. Riguardo ai capitoli di spesa su cui intervenire in modo selettivo e mirato, il candidato premier dei progressisti riconosce il margine per mettere in vendita una parte del patrimonio immobiliare pubblico, se pur in una dimensione assai lontana e più modesta rispetto alle cifre astronomiche delineate da Renato Brunetta. Così come ammette la necessità di operare una razionalizzazione e diminuzione dei trasferimenti statali alle imprese, per un’entità molto più limitata rispetto al piano concepito dall’economista Francesco Giavazzi per conto del governo.

Appaiono molto lontani i tempi in cui la principale forza politica della sinistra e i suoi rappresentanti affidavano all’interlocuzione preferenziale con personalità più o meno autorevoli del campo moderato e dell’establishment ostile al Cavaliere la fonte di legittimazione della propria credibilità di governo. Oggi più che mai l’orgogliosa rivendicazione della propria identità progressista marca con nettezza i confini e le distinzioni tra l’alleanza costruita da Bersani e il gruppo a sostegno del professore della Bocconi. Un’antitesi che si rivela in forma eloquente anche su un punto dirimente di metodo. A differenza di Monti, infatti, Bersani sceglie di puntare sulla necessità di tendere alla più ampia coesione nelle decisioni strategiche sul piano sociale come sul versante politico-istituzionale. Perché, rileva, “è possibile e doveroso ricercare una sintesi in cui tutti possano trovare le loro ragioni e valori, ed è troppo facile imporre la propria visione dicendosi riformatore in contrapposizione agli altri che sono conservatori”.