In “Fantasma”, i Baustelle cantano quel che resta del futuro

In “Fantasma”, i Baustelle cantano quel che resta del futuro

La Morte. La Natura. L’orizzonte degli eventi. Il Futuro. Titoli ambiziosi, spesso, nascondono pochezza di idee. Non è il caso dei Baustelle, band di Montepulciano giunta ormai alla sesta prova su strada: Fantasma, questo il titolo dell’album, è sugli scaffali dei negozi da circa ventiquattro ore. Non si tratta, bisogna dirlo subito, di un disco facile. Dimentichiamoci i tempi de “La guerra è finita” e di “Charlie fa surf”: questa band ha cambiato pelle, lasciandosi alle spalle persino gli echi folk e immediati di pezzi come “Le rane”, uno dei singoli estratti dal penultimo I Mistici dell’Occidente (2010).

Che direzione hanno preso nel frattempo i Baustelle? Il Bianconi, mente e core del terzetto, ha definitivamente chiuso le porte, spento le luci, risalito la scalinata buia, ed è entrato nella cabina di proiezione, dove ha trasmesso, una dopo l’altra, tutte le sue pellicole preferite. Per questo, Fantasma, è un disco a 35 millimetri. Riflesso contemporaneo della passione sfrenata che Francesco, Claudio e Rachele hanno per il cinema di un tempo, in generale, e per le colonne sonore in particolare. Una passione presente da anni nell’immaginario della band, e che in Fantasma trova il suo pieno e totale compimento.

I titoli tradiscono quest’attitudine cinematografica: ci sono i titoli di testa, l’intermezzo e i titoli di coda. E c’è il finale. Manca la storia, ma nel senso che ce ne sono tante, intrecciate tra loro. Le tematiche mescolano, ancora più che ne I Mistici dell’Occidente, terra e cielo o, per dirla a modo loro, “sesso orale e santità”. “Bisogna avere fede / navigare nello spazio siderale / presupporre l’aldilà / che siamo troppo avvezzi a stare male” (Radioattività), ma anche “potremo anche avere altre donne da amare / sconfiggere l’ansia e la fragilità / e magari tornare a sbronzarci sul serio / nella stessa taverna di vent’anni fa” (Il futuro). Quest’ultima richiama alla mente i “vecchi” Baustelle, quelli che raccontavano le ferite dell’anima attraverso la vita da bar ed i ricordi d’infanzia.

Non è un disco facilmente digeribile, Fantasma. Gli arrangiamenti della polacca Film Harmony Orchestra di Wroclaw (che offre “un ottimo rapporto tra prezzo e qualità”), diretta da Enrico Gabrielli, risultano talvolta pomposi e leziosi, con il risultato di rendere alcuni brani davvero ostici per l’ascoltatore. Gli episodi meno riusciti, in questo senso, sono Cristina e L’estinzione della razza umana. In larga parte superflui, a mio modo di vedere, gli intermezzi musicali, Fantasma (Intervallo) e Primo principio di estinzione su tutti: il disco poteva tranquillamente essere ridotto di tre brani, e ne avrebbe guadagnato in scorrevolezza e piacevolezza d’ascolto.

Ma i Baustelle sono fatti così, amano reinventarsi e provocare – “Ciò che siamo stati non saremo più” -, anche a costo di spiazzare qualche vecchio fan. Il pessimismo teoretico del Bianconi offre il suo meglio, dal punto vista lirico e musicale, in Diorama e sopratutto nella già citata Il futuro, affresco di un ricordo che non passa e di un orizzonte romano dai confini più che mai nitidi: “Il passato adesso è piccolo / ma so ricordarmelo / Io, Gianluca, Rocco e Nicolas / felici nel traffico / di un marciapiede del Pigneto vite fa”. Il tempo, inteso come flusso destinato ad interrompersi, è il filo conduttore del disco, con alcuni concetti ripetuti fino all’ossessione (“il finale della temporalità / quando tutto cesserà”, “sarà caro il disinganno quando tutto crollerà” e “le speranze del futuro” che “falliranno fatalmente”).

In altri brani, però, c’è spazio anche per riferimenti più terreni e diretti. In un mondo in cui il cinema è la culla poetica dell’esistenza, la televisione diventa l’incarnazione delle bassezze: ecco dunque “Il figlio di troia che appalta la Rai” (Nessuno) e “le antenne di Segrate” che emanano “i segnali ineluttabili del vuoto che verrà” (Maya colpisce ancora). Milano si incarna negli scenari foscoliani di Monumentale, l’ode alla tranquillità immota dei cimiteri, in cui è Rachele a prendersi la scena; Roma ritorna invece in Conta l’inverni, dove Francesco racconta, dallo spazio angusto di una cella, una storia d’amore noir e sanguinosa, utilizzando – per la prima volta – il dialetto.

Alla ricerca del Fantasma della nostra esistenza, “una cosa morta che riappare nel presente, il simbolo che mette in comunicazione due declinazioni temporali diverse”, i Baustelle si imbarcano in un viaggio lungo (troppo, forse?) e tortuoso, che pone molte domande e solo raramente offre delle risposte – come accade nella poesia vera – con lo sguardo rivolto all’avvenire e la consapevolezza di un passato che pesa sul singolo e sull’umanità. “Gli spettri agitano coscienze storiche / Fatti epocali, stragi piccole / Colpe e peccati e scie di cenere”, canta Bianconi in Cristina. Ma alla fine, la sofferenza esistenziale dell’individuo si risolve in un antico, eterno conflitto: quello con la nostra interiorità e con la natura stessa della razza umana. Poiché, in fondo, “ciò che ci fa paura siamo noi”.

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