Qui Ponticelli. Zona orientale di Napoli. Quartiere di frontiera, l’ultimo prima di entrare nei comuni della provincia. A Ponticelli si arriva con autobus o con la Circumvesuviana. Quando passano portano anche qui. Qui a est si arriva anche con l’automobile. La cosa più semplice è arrivarci attraverso via Argine, più nota per la presenza della Motorizzazione e di fabbriche come l’Ansaldo o la Whirlpool. Di “ponticelli” non ne sono rimasti, le zone paludose sono state bonificate per lasciare il posto a una bruttissima edilizia popolare. Ma non è questo il punto. Il punto è la viabilità, le strade: ne cerchi una e trovi uno schiaffo…
Intanto, a Ponticelli succede che se metti la freccia per svoltare, mentre sei alla guida della tua auto, si girano per vedere chi sei. È una cosa anomala mettere la freccia da queste parti, una cosa che fanno in pochi. Pochi e conosciuti, pochi che guidano auto note, auto di residenti. Se non sei della zona, e la tua auto non è conosciuta, e metti la freccia per svoltare, automaticamente spunta un ragazzetto in moto che ti segue per capire chi sei, dove vai, da chi vai.
A Ponticelli non si vedono vigili urbani, né agenti, nessun carabiniere. C’è un commissariato, sì, ma di pattuglie, volanti, presenza di forze dell’ordine per strada nemmeno l’ombra. E sì che i Nocs, giusto un esercito di Nocs potrebbe fare la differenza, ma insomma, ci si accontenterebbe di una buona squadra di polizia stradale capace di far rispettare il codice della strada, ecco. Quando i problemi sono troppi, succede che i sogni si infeltriscono.
Imboccare la via principale del quartiere, cioè viale Margherita o corso ferrovia, l’uno il prolungamento dell’altra, vuol dire dribblare decine di auto e motorini che hanno la precedenza a prescindere. Se si ha la combinazione di parcheggiare e proseguire a piedi lungo il corso principale che sbuca in piazzetta Michele de Iorio, si rischia seriamente di essere investiti. La strada è piccola. I residenti, non a caso, l’hanno battezzata “dint’ ‘o stritto”. È piccola davvero, straripante delle cassette di frutti-pesci-pane-giocattoli-detersivi-bacinelle-dituttovendoli esposte all’aria, su suolo pubblico.
Questo pezzetto di strada è chiuso al traffico. Su carta, almeno. Su una delle due estremità, cioè quella che affaccia sulla citata piazzetta de Iorio, ci sono anche dei pilastri di ferro per impedire l’accesso agli autoveicoli. Ma sono stati smontati/divelti da chi da lì vuole passarci e basta e non a piedi, ma con auto o motorino. Tanto nessuno controlla, multa o si ribella, ci sono solo loro: quelli che vogliono passare e basta. Ovviamente senza casco, 3, 4, 5 persone su uno scooter, molti i minorenni. E tutti, a prescindere dall’età, quando entrano “dint’ ‘o stritto”, sono pervasi da un bisogno irrefrenabile di correre.
È tutta una gimkana tra i pedoni e le cassette delle verdure, le mamme con i passeggini e le buste della spesa degli anziani. Nessuno li maledice. Io non ne ho visto nessuno, almeno.
I moto-muniti, a frotte, vanno su e giù per lo stretto a tutta birra, ovviamente, mica a passo d’uomo. E poi impennate, a chi ne fa di più, e sgommate, a chi le fa più pericolose, ginocchio a terra che manco i professionisti delle due ruote, e sgasate, stavo per dimenticarle. A chi sgasa di più. Nessuno li maledice.
Ho visto una ragazza sui 16 anni moto-munita, truccatissima, stivale bianco di plastica, capelli lisci, lunghi, neri, pantaloncini e calze chiare urlare a una donna incinta: “E lievete, chiattò”. Le ostacolava il percorso. La donna incinta si è girata, non ha capito, non si è spostata perché non ha fatto in tempo. Dint’ ‘o stritto il rumore di clacson e motori è assordante e quindi urlano tutti, altrimenti non ci si capisce.
La ragazzetta sui 16 anni aveva esperienza, ha dribblato magistralmente la “chiattona” senza aspettare che si spostasse e mentre le sfrecciava accanto, pericolosa e impunita, con l’acceleratore impugnato a un paio di centimetri dalla pancia le ha urlato: «’A prossima vota te ‘o schiatto chillu pallone». Il pallone. La pancia gravida.
La donna incinta l’ha guardata allontanarsi senza dire nulla. Invece io guardavo la donna incinta. La fissavo a bocca aperta, come una demente. Quella donna non ha detto nulla. E nei suoi occhi scuri non ho letto indignazione né rabbia. Ho letto l’abitudine alla sopportazione, alla sopraffazione, alla maleducazione, alle persone-monnezza.
Sono arrivata fino alla piazzetta de Iorio indenne, incredibilmente, poi sono tornata indietro per recuperare l’automobile che avevo parcheggiato e ho fatto dei lunghi giri per arrivare, stavolta in macchina, ancora in piazzetta de Iorio, dove regna la sede della municipalità, delimitata dalla spazzatura. Per riprendere da lì via Argine e allontanarsi il più possibile dal pericoloso “dint’ ‘o stritto”, giro per via Crisconio che poi diventa via San Michele. È stretta pure questa strada ed è un senso unico. Ci sono case popolari anche qui. Anche qui i motorini che sfrecciano, persone che camminano, bambini che rincorrono palloni, cani che abbaiano, gente che urla da un balcone a una finestra. Suoni e colori e odori. Profumi, anzi. Di caffè, candeggina, ragù. Quasi ne senti il gusto, tanto che sono forti. Manca il tatto. Poi arriva pure quello.
Appena imboccata la strada, dopo pochissimi metri, dall’altra parte sopraggiunge un tizio in moto. È giovane, meno di trent’anni. Io procedo a passo d’uomo, lui è spedito, va di fretta come tutti quelli che qui guidano un due ruote. È senza casco, come tutti. La strada si stringe che può passare solo un’auto. La mia?
Lui, il motociclista contromano, non rallenta, non accosta, non torna indietro. Lui corre. Io freno, altrimenti lo travolgerei. Sgrano gli occhi, pensando sia matto. Sono ferma, motore acceso, mani sul volante. A sinistra le auto parcheggiate, a destra un muro. Lui non c’entra, non può passare, può solo tornare indietro. Lui. Io posso tornare indietro, ma a retromarcia. Ma non ci penso proprio: è senso unico ed è lui quello contromano. Ho il finestrino abbassato a metà, sporgo la testa, la scuoto, abbozzo un sorriso, gli dico: “Non c’entri. Non ce la facciamo!”.
Lui sgasa e fa per venirmi addosso. Resto immobile. Mi urla che devo farlo passare. Sono basita. Gli dico calma, incredula: “Ma sei tu quello contromano!”. Scende dalla moto, che lascia accesa e in mezzo alla strada, inserendo il cavalletto. Si avvicina serio a me, al mio finestrino. Infila una mano e mi dà uno schiaffo. Ma forte. Di rovescio. Cerca i miei occhi e rabbioso aggiunge “M’e’ fa passà. Tuorn’ aret’, muovete!”. Mi devi far passare, torna indietro, sbrigati.
Dietro di me ci sono motorini e auto. Non posso fare marcia indietro. Un tipo fa un gesto con la mano e piano piano tutti eseguono, facendo marcia indietro. Tutti. Anche io. In automatico. Ho la bocca che pulsa per il colpo. O, forse, mi brucia. Forse si è spaccato il labbro, sento il sapore ferroso del sangue. Appena la strada si allarga a sufficienza, lui ci dribbla sgasando. A quel punto possiamo passare noi.
Nessun vigile, nessun agente, nessun militare. Zero Stato. E nessuno che s’indigna. Nemmeno io. La bocca pulsa. Non penso. Non parlo. Poi un’illuminazione: ma un’invasione? Una bella invasione, massiccia. Da parte di chiunque. C’è nessuno? No. E chi la vorrebbe mai questa monnezza?
Pace per le persone che fanno eccezione, molteplici e silenziose, vinte. Pace per le associazioni, i coordinamenti e i comitati, che pure esistono, che pure esternano, ma si parlano un po’ addosso visto che pure una cosa semplice come la viabilità è una conquista mancata da queste parti. Il resto è monnezza. Se non vivi qui, non lo sai, non lo immagini. I media non lo raccontano. In tv si vedono le Vele di Secondigliano, i vicoli scenari di omicidi o i pastori di San Gregorio Armeno, ma il quotidiano di certi quartieri è ignoto. Non pervenuto. Qui Ponticelli. Passo e chiudo. Vado a mettere il ghiaccio.
*Tratto dal blog Parallelo 41