Israele al voto, il paese è fermo ma Netanyahu è favorito

Israele al voto, il paese è fermo ma Netanyahu è favorito

Oggi in Israele si terranno le elezioni generali, e mai come questa volta, da anni, l’attenzione del mondo è concentrata sui possibili risultati delle urne di Gerusalemme. Secondo tutti i sondaggi, vincerà di nuovo la destra di Benjamin Netanyahu, l’attuale premier. Sarà per il recente conflitto di Gaza, o per l’ammissione della Palestina a «Stato osservatore» delle Nazioni Unite, o per Israele paradossale «isola di tranquillità» nello sconquasso delle rivolte arabe – per non citare la bomba iraniana, il prossimo esecutivo israeliano avrà di fronte a sé questioni da risolvere importantissime, che decideranno il destino della nazione israeliana in Medio Oriente e nel mondo.

O almeno, questo è quanto credono molti osservatori occidentali. Lo crede Gideon Rachman, capo-opinionista degli affari internazionali del Financial Times, per il quale «la più grande questione di tutte [per Israele] è il futuro della Palestina», insieme al fatto che «Israele sta perdendo il sostegno dell’Occidente». Altri (Karl Vick sul Time) parlano invece del problema degli insediamenti in Cisgiordania.

Ma in realtà ciò che avviene oltre i confini israeliani, qualunque essi siano, interessa ben poco agli israeliani. La questione cardine che segna l’atmosfera delle elezioni israeliane è del tutto diversa: la situazione economica è la preoccupazione principale. Questo è quanto rivelano i sondaggi, e questo è l’ostacolo che ha fatto crollare il governo nei mesi scorsi. Nonostante aumenti delle tasse e tagli della spesa pubblica, il deficit del 2012 è stato del 4%, cioè pari al doppio rispetto alle proiezioni – nonostante tassi di crescita dell’economia tra il 3 e il 4% negli anni recenti. Ci sono numerosi problemi, soprattutto per la classe media. Tra costi immobiliari in esplosione e salari stagnanti, masse di giovani stanno cercando rifugio in Europa e Nord America, forti di passaporti ereditati da nonni e bisnonni. Soprattutto, sentono che la politica non è più in grado di raccogliere le istanze di protesta espresse, tra gli altri, dal movimento «Occupy Tel Aviv» radunatosi nel Rothschild Boulevard nel 2011.

La situazione può essere ben compresa da alcune, sibilline parole pronunciate dall’attuale ministro della Difesa Ehud Barak, protagonista di sorprendenti giravolte dalla sinistra laburista (con il compianto Yitzhak Rabin), fino a entrare nel governo della destra del Likud di Netanyahu. Barak sostiene che «Israele non è una nazione di 300 milioni di persone. L’intera élite è costituita da forse appena qualche migliaio di persone, e tutti si conoscono tra loro. Per questo, la politica israeliana è familista». È un punto di vista sorprendentemente condiviso anche da molti dei giovani che protestavano a Tel Aviv nel 2011. Ma dopo la fine degli eroici giorni di accampamento, straordinariamente imbarazzanti per un paese che anela a proporsi come modello sociale nel Medio Oriente, i leader della protesta hanno faticato a incontrare vera rilevanza politica. I partiti tradizionali hanno adottato una strategia di cooptazione che ha svilito gran parte del messaggio, sacrificato alla real-politik del partitismo locale. Il 32enne Itzik Shmuli, già tra il leader della protesta, è il candidato numero undici tra i laburisti; una sua collega, la 27enne Stav Shaffir, è stata piazzata addirittura alla casella numero otto.

È difficile che le istanze del Rotschild Boulevard possano essere veramente espresse, perché alla Knesset (il parlamento israeliano) non è più tempo di ideologie, ma di lobby. Il sentimento è ben rappresentato dal gruppo funk Hadag Nahash, con uno ska che celebra l’«autoreferenzialità» dei partiti, pur se con termini forse più contemporanei. Anche i verdi, che contano forse ancor meno dei verdi italiani, hanno cercato di intercettare la disaffezione giovanile con un video pierinesco in cui uomini mascherati da politici famosi emettono pubbliche flautulenze nei luoghi della protesta giovanile di Tel Aviv.

La nostalgia anni Novanta della tradizionale, comprensibile e prevedibile contrapposizione tra destra del Likud e laburisti, ha lasciato spazio e una frammentazione estrema tra gruppi d’interesse. Questi gruppi sono sempre esistiti, ma acquisiscono di anno in anno rilevanza sempre maggiore. Al governo con il Likud di Netanyahu c’è una formazione nazionalista, «Yisrael Beitenu» di Avigdor Lieberman, che esprime le istanze della nuova immigrazione post-sovietica degli anni Novanta. Esiste e si rafforza un partito che rappresenta gli ultra-ortodossi, lo «Shas», già protagonista di un’effimera esperienza di governo con un esecutivo guidato proprio da Ehud Barak nel 1999. Negli ultimi mesi, sono venuti poi alla luce mediatica miriadi di nuovi volti, candidati a sostenere le necessità di altri gruppi. Le istanze dei residenti negli insediamenti in Cisgiordania hanno incontrato repentina espressione (e proiezioni di ben una dozzina di seggi su 120) in tale Naftali Bennett di «Bayit Yehudi», («La Casa Ebraica»). In Europa, Bennett sarebbe definito un «ultra-nazionalista in giacca e cravatta» – peccato che in Israele la cravatta non si porta quasi mai. Anche l’anchorman televisivo Yair Lapid ha lanciato il suo «Yesh Atid» («C’è un futuro»), orientato alle necessità della classe media. Lapid ha dichiarato che accetterà di entrare nel governo, forte dei sondaggi che gli assegnerebbero oltre dieci seggi, alla condizione che la coalizione sostenga un piano d’introduzione della coscrizione militare obbligatoria anche per gli ultra-ortodossi.

Come afferma il laburista Yitzhak Herzog, «mai un’elezione è stata più indecisa, e mai il risultato è stato così incerto». Netanyahu guida i sondaggi con una trentina di deputati, mentre la sinistra laburista ne dovrebbe avere una ventina. Eppure, è del tutto aperto il discorso delle coalizioni: i leader politici locali sono noti per subitanei cambi di opinione, con sardoniche dichiarazioni d’appoggio dall’italianissima improbabilità. Le unioni tra partitini sono tutte possibili, anche le più impensabili: possono durare lo spazio di un paio di dichiarazioni alla Camera, o tutta una legislatura. 

Alla fine, l’impressione è che questo sia un gioco molto pericoloso per Israele. Il paese è estremamente giovane, con la fondazione nel 1948. È nato dagli intenti comuni di gruppi d’interesse arrivati da tutto il mondo, esponenti di tutte le dimensioni del credo religioso (dall’ultra-ortodossia, al laicismo) e politico (dal marxismo al centro-destra). Si è sviluppata anche una scintilla di guerra civile sulla gestione della presenza sul territorio, tra Ben Gurion e Menachem Begin. Gurion spese tutta la sua vita politica a introdurre un messaggio «nazionale» per rimpiazzare gli interessi dei singoli gruppi – e questa è stata la politica israeliana per anni. Il piano comprendeva formazione umana, con il servizio militare lungo per tutti; e simbologie di resistenza, come la roccaforte di Masada, con una particolare rilettura degli episodi storici a uso delle necessità politiche.

Nella storia del paese, Netanyahu è il secondo premier per giorni di permanenza al potere. È abilissimo a giostrare e sostituire gli interessi dei gruppi di appoggio, ma così facendo sembra far prevalere gli obbiettivi delle lobby separate, rispetto a quelli della nazione. Questa frammentazione non solo porta alla formazione di «classi di esclusi» (come i giovani), ma impedisce anche lo sviluppo di concetti ideologici veri per risolvere le grandi questioni israeliane. È sorprendente: con Netanyahu dal 2009 al 2012, neanche un israeliano è morto per attacchi suicidi palestinesi, mentre una decina di anni fa la media di vittime era di circa cento morti l’anno. Tutto ciò è avvenuto senza veri progressi dal punto di vista dei rapporti politici con i vicini.

Qualcuno pensa che la guerra di Gaza del novembre 2012 sia stata un pretesto di Netanyahu per distogliere l’attenzione dai problemi dell’economia interna. Ebbene, sembra ormai vero il contrario: è l’economia interna che distoglie l’attenzione degli israeliani dai problemi internazionali. Se non si arriverà a un nuovo accordo nazionale, comprensivo delle istanze di tutti, il paese ci rimetterà. Se ne parla nei bar di Tel Aviv e per le strade di Gerusalemme, e se ne parla praticamente da vent’anni. Che sia il momento di cambiare?

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter