Mani legate. Si può sintetizzare con queste due parole i margini che il nuovo governo, quale che sia, uscito dal voto del 24-25 febbraio potrà avere sul fronte della spesa pubblica: l’Italia è stretta in una morsa di impegni internazionali che concedono davvero poco spazio. Basti ricordare, tanto per cominciare, quel Fiscal Compact entrato in vigore il primo gennaio 2013, ratificato in via definitiva con il voto del Senato il 20 dicembre. Del resto già in aprile le due Camere avevano varato – proprio in preparazione del Fiscal Compact – la modifica dell’articolo 81 della Costituzione con l’introduzione dell’obbligo del pareggio di bilancio (in termini strutturali, cioè al netto di fattori ciclici e una tantum) delle amministrazioni pubbliche e la sostenibilità del debito pubblico. In linea con il Trattato, voluto fortemente dalla cancelliera tedesca Angela Merkel (ma sostenuto anche da Mario Monti al vertice di gennaio 2012): ogni Stato non potrà superare un deficit strutturale dello 0,5% del pil (che può arrivare all’1% se lo Stato in questione ha un debito pubblico al di sotto della soglia del 60% del pil indicata già a Maastricht).
Per ora, stando almeno ai dati della Commissione Europea nel suo rapporto d’autunno pubblicato a novembre, dovremmo starci: per il 2013 Bruxelles prevede un deficit strutturale allo 0,4% del pil (mentre il governo aveva indicato un avanzo dello 0,9%). Già nel 2014, avvertiva Bruxelles, a politiche invariate si risalirebbe allo 0,8%, quindi già fuori da quanto previsto dal Fiscal Compact. C’è da stare attenti, insomma, altrimenti scattano gli automatismi correttivi previsti dal Fiscal Compact, o, in caso di mancata ottemperanza, multe e salate, fino allo 0,1% del pil (e dunque dell’ordine di 1,5 miliardi di euro).
Come se non bastasse, il Fiscal Compact – che formalmente è un trattato intergovernativo e non Ue (anche se si avvale delle istituzioni comunitarie) – si incrocia con il cosiddetto Six Pack, la nuova governance economica Ue in vigore da fine 2011. Il Six Pack si attiene ai classici parametri di Maastricht: deficit massimo al 3% del pil e debito al 60%. Il punto è che però la Commissione ha poteri molto più ampi di intervento, con multe potenzialmente più severe di quelle del Fiscal Compact, arrivando fino allo 0,5% del pil (che per l’Italia vorrebbe dire oltre 7 miliardi di euro). Oltretutto il Six Pack prevede procedure anche per il debito pubblico eccessivo e non più solo per i deficit. E l’Italia, come ha appena certificato la Banca d’Italia, con 2.020 miliardi di euro nel 2012, ha un indebitamento pari al 126,1% del pil oltre il doppio della soglia massima (nel 2013 dovrebbe salire ancora un poco per poi ricominciare a scendere dal 2014).
E qui si “saldano” per così dire le norme del Fiscal Compact e del Six Pack: entrambi impongono di ridurre il debito pubblico eccedente la soglia del 60% del pil – l’Italia ha il 66% “di troppo” – in ragione di un ventesimo l’anno. In termini puramente matematici, e a pil costante, vorrebbe dire una riduzione di 50 miliardi di euro l’anno per vent’anni circa. Un bagno di sangue insostenibile. Fortunatamente è una matematica “politica”, che consente di considerare come attenuanti gravi recessioni (com’è il nostro caso), mentre con una crescita consistente del pil (almeno il 2,5%) il ventesimo di riduzione si ridurrebbe per così dire da sé, come ha detto questo venerdì lo stesso governatore di Bankitalia Vincenzo Visco. Ci sarà comunque da negoziare, certo è che Bruxelles dall’Italia si aspetta in sostanza avanzi primari, almeno ogni volta che è possibile: «Poiché – ha spiegato comunque Visco – tale riduzione (del debito, ndr) viene valutata in media su un triennio, non in ciascun anno, nelle fasi sfavorevoli del ciclo sono possibili disavanzi da compensare con surplus nelle fasi favorevoli».
Non finisce qui. Sia la nuova governance Ue, sia il Fiscal Compact, prevedono forme sempre più cogenti di coordinamento delle politiche di bilancio e di riforma, e di controllo da parte della Commissione. Legato al Six Pack è infatti il semestre europeo, con l’obbligo da parte degli Stati membri di presentare entro aprile programmi nazionali di riforma e i programmi di stabilità e convergenza, che vengono esaminati dalla Commissione Europea. Bruxelles presenta poi, a giugno, un rapporto con specifiche raccomandazioni per ogni paese le quali, dopo l’avallo del Consiglio Ue (che rappresenta gli Stati), diventano cogenti. Il Fiscal Compact chiede qualcosa di analogo: «Le parti contraenti assicurano di discutere ex ante e, ove appropriato, coordinare tra loro tutte le grandi riforme di politica economica che intendono intraprendere». Peraltro, il Trattato specifica anche che i paesi sotto procedura per deficit eccessivo dovranno predisporre un «programma di partenariato economico e di bilancio con una descrizione dettagliata delle riforme strutturali da definire e attuare per una correzione effettiva e duratura del suo disavanzo eccessivo». Da comunicare ex ante ai partner secondo il Fiscal Compact sono anche i rispettivi piani di emissione di debito pubblico.
Gli unici veri spazi di manovra rimangono nella politica. Ad esempio la definizione di deficit “strutturale” è tutt’altro che scientifica, almeno a detta di molti esperti, e lascia dunque spazio alle interpretazioni – non è un caso che la Commissione ormai abbia smesso di valutare il deficit nominale, che è invece un numero secco e chiaro. Ci sono poi i fattori «eccezionali», non meglio definiti se non come eventi «inconsueti» e «non soggetti al controllo» del governo in questione, o «grave recessione». E, infine, una recente svolta impressa anzitutto dallo stesso commissario agli Affari economici Olli Rehn: la tendenza a «tener conto», nella valutazione del deficit, della «qualità della spesa»: miliardi spesi per infrastrutture foriere di sviluppo non sono lo stesso di quelli utilizzati per spese correnti dell’amministrazione pubbliche. Attenzione però: a Bruxelles precisano che non si tratta, come chiedeva Monti, di «scorporare» le spese infrastrutturali del computo del deficit. Si tratta, al massimo, di una minore severità nel valutare il disavanzo. Starà al nuovo governo saper negoziare a dovere con la Commissione, ma anche con gli altri partner, Germania in testa. Non sarà facile.