Nonostante la calma apparente sui mercati finanziari, nessuna illusione che la tempesta stia per finire dovrebbe esser presa in considerazione. Al contrario, dovremmo esser proprio nell’occhio del ciclone.
La calma si è stabilita quando Mario Draghi ha ribadito che l’euro fosse un progetto irreversibile. Eppure, le forze che potrebbero alla fine mandare in pezzi l’Eurozona non solo sono incontrollabili ma si stanno anche rafforzando. In parte questo è dovuto a seri errori politici compiuti dai leader europei, “shock asimmetrici” sono cresciuti dall’inizio della crisi, e all’Eurozona ancora mancano strumenti credibili per affrontarli ex post.
Lezioni dall’esperienza americana ed europea
Un utile punto di inizio è comparare come gli Stati Uniti e l’Eurozona siano stati colpiti da e abbiano risposto alla recente crisi finanziaria. È utile comparare il mercato dei beni e del lavoro tra Usa ed Eurozona.
La chiave per queste comparazioni sono nozioni di:
- conseguenze permanenti degli shock vs transitorie
- risposte attive vs risposte passive
- shock simmetrici vs shock asimmetrici
La figura sotto mette a confronto il pil statunitense (in rosso) con quello dell’Eurozona (in blu) dal 2006 al 2013. Ho stabilito i valori iniziali a cento per rendere più semplice il confronto. Poche cose devono esser precisate:
- La recessione americana è cominciata prima (2007) di quella dell’Eurozona (2008);
La crisi finanziaria ha avuto origine negli Stati Uniti e più tardi si è diffusa nell’Eurozona e altrove
- Nonostante l’origine della crisi, la caduta nella produttività è stata più ampia nel suo impatto nell’Eurozona;
- L’economia americana ha cominciato a recuperare dal 2009, mentre nell’Eurozona il recupero è durato poco per poi appiattirsi nel 2010
Come risultato, il pil americano nel 2012 è sopra il suo livello del 2006 del 7%, mentre quello dell’Eurozona nel 2012 ha superato il suo livello del 2006 solo del 2%
La comparazione sul mercato del lavoro racconta anche una storia interessante: la figura sotto descrive il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti (linea blu) e nell’Eurozona (linea rossa).
Come prima cosa, si nota che la crescita della disoccupazione negli Usa è nell’impatto molto maggiore che nell’Eurozona, nonostante il fatto che le esperienze più recenti mostrino una caduta maggiore della produzione in Europa. Il dato è dunque coerente con la presenza di una certa quota di disoccupazione nascosta nell’Eurozona rispetto agli Stati Uniti, probabilmente dovuta al maggior costo del licenziamento nell’Eurozona. Secondo, seguendo la grande crescita nel tasso di disoccupazione nel 2007-2008, il tasso di disoccupazione comincia a declinare nel 2010, nonostante ci sia una piccola crescita nel 2012. Terzo, per contrasto, il tasso di disoccupazione europeo cresce di più dal 2008, ma non mostra segnali di recupero.
Questa situazione mostra effetti contraddittori molto più persistenti nell’Eurozona che negli Stati Uniti. La crisi globale sembra che abbia provocato effetti quasi permanenti nell’Eurozona ma effetti transitori negli Stati Uniti. Sembra che in Europa siamo in un altro cerchio dell’“isteresi”, simile a quello che è accaduto dopo il primo shock petrolifero nel 1973. La questione a questo punto è: in quale misura questo è una conseguenza dei differenti atteggiamenti politici nell’Eurozona e negli Stati Uniti? O è dovuto ad altri fattori economici?
Deficit e debiti
Uno sguardo alle politiche fiscali e monetarie sulle due sponde dell’Oceano Atlantico rivela importanti differenze. La prossima figura mostra il rapporto deficit/pil negli Stati Uniti e nell’Eurozona. Questo rapporto non dovrebbe essere interpretato come un indicatore del discrezionale “stimolo fiscale” (tasse più basse e spesa pubblica più alta), ma ciononostante è interessante. Le differenze sono abbastanza impressionanti.
- La crescita del rapporto deficit/pil negli Stati Uniti – un salto verso il basso della linea rossa – è più evidente che nell’Eurozona: 12 vs 5 punti percentuali di pil dal punto più alto a quello più basso.
Questo si verifica nonostante l’Europa abbia vissuto una recessione più profonda, con riduzioni di pil e crescite del deficit dovuti a stabilizzatori automatici.
- L’atteggiamento espansivo nell’Eurozona ha avuto vita breve e si è invertito nel 2009 mentre il rapporto deficit pil negli Stati Uniti aumentava solo dal 2010.
Come conseguenza, il rapporto deficit/pil che era approssimativamente al 70% sia negli Stati Uniti sia nell’Eurozona ha cominciato a divergere dal 2007 con una crescita maggiore negli Usa (guarda figura 4).
Politica monetaria
La figura seguente compara l’acquisto di titoli rispetto al pil per la Fed (blu), la Banca d’Inghilterra (rosso), la Bce (verde). Ma se contare su un singolo indicatore per misurare le politiche monetarie potrebbe non essere del tutto appropriato, le differenze coinvolte sono di nuovo impressionanti:
- La misura degli interventi della Bce è circa un quinto di quella della Fed, circa il 4% del pil comparato a più del 20 per cento
Assumendo moltiplicatori fiscali molto conservativi, la differenza negli atteggiamenti fiscali tra gli Stati uniti e l’Eurozona (sette punti di pil dall’alto al basso) si muove dalla performance peggiore dell’Eurozona comparata a quella statunitense (cinque punti di crescita), anche senza considerare la politica monetaria meno aggressiva adottata dall’Europa.
Questo suggerisce che i problemi dell’Eurozona sono in gran parte fatti in casa. Il che non implica però che l’euro sia a rischio. Non ancora, almeno. Per questo, bisogna tornare alle asimmetrie.
Asimmetrie
Oltre le risposte aggregate negli Usa e in Europa, la crisi ha amplificato le asimmetrie in Europa. Compariamo ad esempio l’Italia (in rosso) con la GermanIa (in blu) nella figura sotto. Il pil è stato normalizzato a 100 dal 2006, e la divergenza è ben marcata:
Sfortunatamente per l’Eurozona, questo pattern è generale. Per costruire una misura di sintesi della dispersione del pil, ho calcolato per ogni anno, dal 2006 al 2011, il coefficiente di variazione del pil tra gli stati americani e tra i paesi europei. La figura sotto mostra i risultati, con il valore iniziale normalizzato a uno.
Quello che vediamo è impressionante:
- Crescita evidente dell’indice di dispersione in Europa. Tra il 2007 e il 2012 questo indice è cresciuto più del 2 per cento.
- La dispersione tra i paesi americani è scesa dal 2007 al 2011 di quasi l’1%.
Ci sono poche spiegazioni possibili per questa cosa
- shock asimmetrici
Al contrario degli Stati Uniti, i paesi dell’Eurozona sono fortemente colpiti da shock specifici: squilibri fiscali e monetari in Grecia, boom del credito e crisi bancaria in Irlanda e Spagna, e crescita produttiva in Portogallo e in Italia.
- Risposte politiche asimmetriche
Al contrario degli Stati Uniti, nell’Eurozona la restrizione fiscale era più forte proprio nei paesi che soffrivano shock negativi più ampi.
- Diverse istituzioni
Al contrario degli Usa, i paesi dell’Eurozona hanno eretto barriere intorno al mercato del lavoro con diversi gradi di protezione dell’occupazione, sistemi diversi di negoziazione salariale, e diversi sistemi bancari e di welfare. Questo di certo influenza le diverse risposte delle economie agli shock.
Conclusioni
La politica dell’Eurozona di risposta alla crisi – restrizioni fiscali e vincoli rinforzati sul sistema di prestiti nazionali per prevenire forme di azzardo – non solo crea un impatto recessivo sull’Eurozona ma aggrava anche il pericolo originale dell’Euro: le asimmetrie.
Così, in un contesto di scarsa mobilità lavorativa internazionale e mancanza di flessibilità nei salari e nei prezzi in alcuni paesi europei, la mancanza di uno schema assicurativo/di trasferimento operativo ex post diventa perfino più seria.
Il problema è molto difficile. Un sistema di trasferimento ex post è necessario, ma non sembra sia fattibile dal punto di vista politico. La procedura macroeconomica adottata, uno strumento di monitoraggio ex ante – come una sorta di tabellone dei punteggi – per registrare le asimmetrie è probabilmente controproduttiva. Così, invece di trasferire risorse ai paesi che soffrono a causa degli shock, li punisce.
Le prospettive di lungo termine per la sopravvivenza dell’euro non stanno crescendo ma stanno invece peggiorando.
Il testo è stato pubblicato originariamente qui .