La riforma Fornero sarà un banco di prova per la prossima maggioranza di governo. La si cambia o non la si cambia? Ora che anche lo stesso Monti – che l’ha fatta approvare tra mille difficoltà – pare volerla emendare, è possibile che per effetto dei veti incrociati sia meglio che la riforma rimanga così come è.
Una valutazione complessiva della riforma sarà possibile solo quando essa sarà a regime e i dati raccolti dal sistema permanente di monitoraggio e valutazione istituito presso il Ministero del lavoro saranno resi noti, tuttavia è possibile già da ora fare qualche valutazione “di principio”.
È noto come il principale problema del mercato del lavoro italiano sia la precarietà dei contratti di lavoro, soprattutto per le nuove generazioni. Meno noto è il fatto che l’anomalia dell’Italia nel confronto europeo non riguarda i contratti a termine di tipo dipendente, gli apprendisti o il lavoro interinale quanto piuttosto l’utilizzo massiccio di forme di lavoro autonomo che nascondono una reale dipendenza economica.
Per porre rimedio a questo problema la riforma si propone di agire in due direzioni: da una parte incentiva l’utilizzo del lavoro subordinato rendendo più problematico per le imprese ricorrere a contratti di lavoro autonomo, dall’altra parte rende marginalmente più flessibile l’assunzione e il licenziamento di un dipendente con un contratto a tempo indeterminato.
Ci sono buone ragioni per agire in entrambe queste due direzioni. Ma prima di passare ad una breve analisi delle ragioni, vediamo le critiche più fondate. La critica più frequente è che la riforma agisce in periodo di crisi e che rischia dunque di ridurre l’occupazione. Tuttavia questa critica non è condivisibile: una riforma del lavoro è pensata per risolvere problemi strutturali, non per essere temporanea. Se il problema strutturale è l’eccesso di contratti precari e di falso lavoro autonomo fa, non ci si può poi lamentare che stringendo le maglie dei contratti temporanei ci siano meno contratti temporanei. Alcuni di questi verranno trasformati in contratti a tempo indeterminato, altri, quelli abusivi, scompariranno.
La prima direzione di intervento mira a rendere da un lato più costoso l’uso del contratto a tempo determinato e più problematica la sua reiterazione con lo stesso lavoratore, dall’altro lato più facile e conveniente l’uso del contratto di apprendistato. Il tentativo di far funzionare il contratto di apprendistato come nei paesi di cultura germanica è giusto.
Il dibattito si è concentrato sull’adeguatezza di questo tipo di contratto per l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro: la riforma ha preferito privilegiare un tipo di contratto già esistente, (l’apprendistato appunto) invece di aggiungere un nuovo tipo di contratto come avrebbero voluto i proponenti del contratto unico di inserimento (proposta da Boeri e Garibaldi o Ichino). Questa scelta ha ovviamente dei pro e dei contro che potranno essere valutati solo con i dati sulle effettive assunzioni alla mano. Come “pro” va segnalato che per la prima volta la riforma pone il costo dell’aggiustamento in termini di articolo 18 sulle generazioni presenti, senza scaricare tutti i nuovi costi sui nuovi contratti di chi deve ancora entrare nel mercato del lavoro.
Una delle critiche più frequenti a questa scelta risiede nelle difficoltà di diffusione che ha avuto il contratto di apprendistato già in passato. L’utilizzo di questo tipo di contratto ha un trend decrescente da anni, come si evince dalla figura 1, che mostra il numero di contratti di apprendistato nella regione Veneto, una delle regioni con la maggior diffusione di manifattura. La Figura mostra un trend decrescente di circa il 5% all’anno, già negli anni precedenti alla riforma.
Figura 1: Veneto. Posizioni di lavoro dipendente*. Variazioni rispetto al 30 giugno 2008. Saldi mensili cumulati per contratto.
Fonte: Veneto Lavoro 2012
Un punto essenziale per il funzionamento del contratto di apprendistato riguarda le regole applicative regionali e dei contratti collettivi nazionali e che hanno poco a che fare con la responsabilità diretta del ministero del Lavoro. Sull’applicazione regionale bisognerà certamente lavorare.
L’altra direzione di intervento riguarda il “ritocco” all’articolo 18. La riforma avvicina molto il nostro sistema di tutela a quello tedesco, in cui la tutela reintegratoria costituisce l’eccezione ed è disposta dai giudici solo nel caso in cui il motivo economico risulti inesistente e celi in realtà un motivo discriminatorio.
Questa parziale diminuzione di tutela rispetto al sistema attuale previsto dall’ordinamento italiano appare un prezzo accettabile se compensato dalla riduzione del finto lavoro autonomo. Le ragioni sono due: una politica e una economica.
Quella politica è semplice: perché mai se una riforma marginale del licenziamento individuale funziona da 10 anni in Germania (riforma fatta dal governo rosso-verde di Schroeder), non dovrebbe funzionare da noi? Quella economica invece suona così: mentre pare vero che la discontinuità dell’articolo 18 per le imprese sopra i 15 dipendenti non sembra avere effetti sostanziali sulla dimensione d’impresa, la legge sul licenziamento individuale sembra introdurre almeno due distorsioni rilevanti nelle scelte delle imprese vicino alla soglia dei 15 dipendenti. La prima distorsione riguarda salari inferiori che compenserebbero la maggiore sicurezza del posto di lavoro nelle imprese poco sopra i 15 dipendenti, la seconda distorsione riguarda la proporzione maggiore di contratti a termine impiegati nelle imprese sopra la soglia al fine di aggirare la norma dell’articolo 18.
Dato che le imprese tra i 15 e i 50 impiegano circa il 20% della forza lavoro in Italia e a oggi ricorrono più spesso ai licenziamenti collettivi che a quelli individuali, non si vede perché demonizzare una marginale correzione delle leggi sul licenziamento che faciliti l’aggiustamento di manodopera sui piccoli numeri invece che sui grandi numeri del licenziamento collettivo.
Insomma, la riforma affronta i problemi strutturali del mercato del lavoro italiano. Il problema della disoccupazione soprattutto giovanile è un problema tragico, e tutti sono d’accordo che non è una riforma delle regole del mercato del lavoro che può creare lavoro. Allora perché accanirsi contro una riforma che ha affrontato i nodi strutturali allineandoci agli standard europei? Lo sforzo deve essere rivolto a migliorarne i dettagli non a tornare indietro.
* Professore presso la Facolta di Scienza Politiche, Università Statale di Milano