BRUXELLES – L’economia soffoca e noi torniamo ai buoni, vecchi aiuti di stato per rilanciarla. E’ una semplificazione, certo, ma l’aria che tira di questi tempi a Bruxelles è in sostanza questa. Lo si è già intravisto con le deroghe temporanee alle norme Ue sugli aiuti di stato per le banche travolte dalla crisi finanziaria: tra l’ottobre 2008 e l’ottobre 2012 la Commissione europea ha autorizzato la fantasmagorica cifra di 5.058 miliardi di euro di aiuti al settore finanziario (di cui utilizzati effettivamente 1.616 miliardi), pari al 40,3% del Pil europeo annuo.
Certo, il caso delle banche è tutto particolare, ma, commenta un diplomatico a Bruxelles, «è un chiaro indizio del cambio di atteggiamento generale». Con il rischio che alla fine a farla da padrone siano quelli che hanno una chiara politica industriale nazionale e soprattutto hanno più soldi (tipo la Germania) o comunque hanno più voglia di spenderli per la propria industria (tipo la Francia), con l’Italia a far da Cenerentola, tanto per cambiare.
La Commissione Europea, in effetti, sta alacremente lavorando, ormai dal 2011, a una «riforma degli aiuti di stato». Il cui spirito, come ha spiegato il commissario alla Concorrenza Joaquin Almunia qualche giorno fa in un discorso al King’s College di Londra, è quello degli «aiuti di stato buoni», e cioè adatti a rilanciare la crescita e la competitività nell’ottica di Europa2020 (il piano approvato nel 2010 che punta a rilanciare economia e competitività dell’Ue). Per la crescita, sottolinea Almunia, «la spesa pubblica e i sistemi fiscali restano essenziali. Servono investimenti intelligenti per aumentare il nostro capitale fisico e umano per far ripartire il motore della crescita in Europa». Secondo il commissario «tra gli aiuti di questo tipo ci sono i sostegni all’innovazione, le tecnologie verdi e lo sviluppo di capitale umano».
Tra le parole chiave c’è però anche quella di «market failure», malfunzionamento del mercato, che, commentano Matthias Kullas e Iris Hohmann, due ricercatori del Cep (Centrum für europäische Politik, un importante think-tank tedesco), può esser invocato a ogni piè sospinto e ciò «dà alla Commissione considerevole spazio di manovra. Per questo possiamo aspettarci che la Commissione mitigherà i requisiti di efficienza per quanto riguarda gli aiuti di stato, migliorando allo stesso tempo le probabilità di raggiungere gli obiettivi di Europa2020».
La Commissione parla di «semplificare» e «velocizzare» le procedure (anche filtrando notevolmente, si badi bene, le possibilità di denuncia di presunti aiuti di stato illegali), «aumentare la trasparenza» e «mirare meglio gli aiuti di stato». Nell’aprile scorso Bruxelles ha presentato le prime riflessioni, poi il 5 dicembre una prima bozza con proposte di modifiche. In essa la Commissione ipotizza di aggiungere alle attuali categorie esentate dall’obbligo di comunicare a Bruxelles eventuali aiuti (al momento sono esonerati quelli a favore delle piccole e medie imprese, della ricerca e dello sviluppo, della tutela dell’ambiente, dell’occupazione e della formazione, e per finalità regionale autorizzati dall’Ue) ben altre 10 categorie. Tra queste figurano gli aiuti in casi di disastri naturali, maltempo, conservazione di beni culturali, per l’innovazione, per varie forme di trasporto e per la banda larga. Di tutto di più.
«E’ un sistema molto dannoso per l’Italia – lamentano fonti industriali italiane – perché la Commissione, aumentando di molto il numero di settori esentati, scarica sugli stati nazionali ulteriori oneri di controllo del rispetto delle norme Ue. Oltretutto l’Italia non è attrezzata con una vera authority centrale», aggiungono. «Commissione e stati hanno interessi diversi – avvertono anche Kullas e Hohmann del Cep – è improbabile che i sistemi nazionali possano garantire il rispetto dei requisiti Ue». Certo, la Commissione chiede anche, in caso di sospetti, la possibilità di intervenire direttamente sulle aziende senza passare per le autorità nazionali, ma è improbabile che l’otterrà.
Il tema più spinoso, tuttavia, è l’ipotesi di alzare le soglie che consentono di parlare di aiuti di Stato, le cosiddette «de minimis». Al momento la soglia generale è di 250.000 euro. Ma la scorsa primavera è stata portata a 500.000 per i cosiddetti «servizi di interesse economico generale». Una galassia che spazia dai servizi postali all’approvvigionamento energetico, dalle telecomunicazioni al trasporto pubblico. Molti stati, a cominciare da Germania e Francia, chiedono di aumentare la soglia in modo generalizzato, anche fino a 500.000 euro, e la stessa Commissione ammette che sta già valutando l’opportunità di un aggiornamento «alla situazione attuale del mercato».
Una prospettiva molto negativa per l’Italia, spiega un documento di Palazzo Chigi dell’aprile 2012: «quello che è certo – si legge – è che l’aumento del de minimis farebbe crescere il potenziale di intervento attraverso gli aiuti di stato in modo asimmetrico nei vari Paesi in ragione dei diversi margini concessi dalla situazione di finanza pubblica». Un paradosso, perché «i paesi a bassa crescita (come l’Italia, ndr) che più avrebbero bisogno di stimoli all’economia da parte dello Stato, sono quelli che meno possono usufruire di volumi significativi di aiuto». Un’asimmetria, avverte il governo, «suscettibile di ampliare il differenziale di crescita tra Paesi».
L’allargamento delle materie esentate e l’aumento delle soglie, avverte anche il Cep, «va respinto, perché il rischio di aiuti di stato con un impatto distorcente sulla concorrenza sarebbe di gran lunga superiore ai miglioramenti sull’efficienza» degli aiuti stessi. Oltretutto, ricorda il think-tank, «la Corte dei conti Ue ha avvisato che, una volta concesso un de minimis, non viene verificato quante volte questo aiuto (formalmente al di sotto della soglia, ndr) è stato concesso nei precedenti tre anni». E si fa presto in questo modo ad arrivare a miliardi di euro di aiuti di stato. La Commissione sostiene di aver fatto ampie consultazioni con gli Stati membri e le associazioni di categoria. «Non è vero» sbottano fonti industriali nostrane. «L’Italia, ad esempio, non è stata praticamente ascoltata, Bruxelles aveva già deciso tutto a tavolino, dando retta solo a Francia e Germania». La prospettiva, dicono, è «una progressiva chiusura dei mercati nazionali all’insegna del protezionismo».