Quanto siamo disposti a spendere per vedere la fine di un’opera pubblica? La risposta dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici (Avcp) è: «quanto basta». Nella delibera 105 dello scorso 20 dicembre, formulata su richiesta del Comune di Milano e riguradante i lavori della metropolitana M4 da Lorenteggio a Linate, il regolatore ha stabilito che è possibile rivedere il piano economico e finanziario dell’associazione temporanea di imprese (Ati) che si è aggiudicata una concessione per la realizzazione di un’infrastruttura in finanza di progetto, se l’aumento dei costi rispetto al piano originario (con cui l’Ati ha vinto la gara) deriva da cause indipendenti dall’Ati stessa. La ratio è: sebbene gli enti locali azionisti debbano nuovamente aprire il portafoglio per la quota di loro competenza, quantomeno l’opera non sarà bloccata, e dunque i cittadini potranno beneficiarne. Nel caso in questione, arrivare in tempo per l’appuntamento di Expo 2015, per la parte che va da Forlanini a Linate.
Quella della finanza di progetto è materia complessa. L’Europa regola la libera concorrenza tra le imprese, tutela la trasparenza delle gare e l’interesse dei cittadini alla fruizione delle opere. Stefano Vinti, ordinario di Diritto amministrativo alla Sapienza Università di Roma, spiega a Linkiesta: «La concessione, diversamente da un appalto, è uno strumento con il quale l’amministrazione pubblica demanda al privato contraente la costruzione ed eventualmente la gestione di un’opera e i connessi oneri, prevedendo di norma come remunerazione solo il diritto di sfruttare economicamente la gestione della stessa, eventualmente unito ad un contributo a titolo di prezzo, laddove la gestione non fosse economicamente redditizia».
Nel caso della M4, il Comune è sia concedente – con un impegno di 400 milioni di euro, su 1,7 miliardi (786 milioni dal Cipe e 512 dall’Ati) – che concessionario, essendo azionista del raggruppamento guidato da Impregilo e Astaldi (vincitore della gara indetta tre anni fa), con potere di esprimere 3 consiglieri d’amministrazione su 5. Dunque con una maggioranza in grado di bloccare eventuali aggiornamenti al piano economico e finanziario – leggi aumento dei costi – se non graditi, per quanto fondati, e con il privato nel ruolo di socio meramente finanziario. Un conflitto d’interessi – poi rimediato con una riformulazione dello Statuto che prevede l’indicazione di un vicepresidente da parte delle imprese dell’Ati con la rappresentanza legale della società – che non è piaciuto al pool di banche finanziatrici.
Morale: l’authority ha autorizzato una proroga fino al prossimo maggio per il closing finanziario. Termine oltre il quale si passa al secondo classificato nella gara del 2010. E pazienza se il nuovo piano messo nero su bianco da Impregilo-Astaldi costerà il 20% in più rispetto all’originale. Piano che, come ha dichiarato il presidente dell’Avcp Sergio Santoro al Sole 24 Ore, «non altera la “par condicio” tra i partecipanti alla gara». Santoro ha poi aggiunto: «La rivedibilità del piano economico finanziario orienterà la nostra attività futura. Ne terremo certamente conto in fase di preparazione dei contratti tipo». Dunque è un precedente, ma non inattaccabile: «L’aspetto che mi lascia perplesso», osserva Damiano Lipani, avvocato esperto di diritto pubblico dell’economia, «è il rispetto della par condicio tra i concorrenti, i quali potrebbero direttamente censurare l’operato dell’amministrazione e, quindi, indirettamente i contenuti della deliberazione dell’Avcp che non garantisce affatto la tenuta dell’operato dell’amministrazione davanti al giudice amministrativo». In altre parole la delibera potrebbe non reggere a un ricorso al Tar o al Consiglio di Stato.
«In una situazione in cui le amministrazioni pubbliche non hanno fondi e il mercato bancario è in sofferenza, l’alternativa è buttare all’aria i contratti finora sottoscritti oppure, se si contempera il principio di concorrenza con l’interesse nazionale strategico, e fermo restando i paletti previsti dalla legge, concedere un potere di rinegoziazione ai privati è sensato», dice Fabio Angelini, avvocato dello studio Pavia e Ansaldo. Tuttavia la flessibilità è un’arma a doppio taglio con cui gli enti locali potrebbero farsi molto male, soprattutto utilizzando uno strumento come la finanza di progetto, dove la loro capacità negoziale è per definizione inferiore rispetto alle imprese private, di cui hanno bisogno per costruire l’infrastruttura.
Ammesso e non concesso che i privati siano più efficienti del pubblico. Per esserne sicura, riflette un operatore di lungo corso del settore, la Pa potrebbe ad esempio mettere a gara separatamente la costruzione e la gestione, dopo aver messo a gara i piani finanziari dei raggruppamenti d’imprese. «Nel caso di una metropolitana, quando si effettuano scavi sotterranei esistono numerosi elementi di incertezza di cui in Italia non si tiene conto se non nella voce “varie ed eventuali” anche perché altrimenti i costi lieviterebbero a dismisura. C’è dunque la tendenza a mantenere basso il preventivo per rendere bancabile il progetto, aggiungendo poi i costi in corso d’opera», osserva Giulio Ballio, ex rettore del Politecnico di Milano.
A ciò si aggiunge alla complessità delle procedure di approvazione delle opere pubbliche e la lentezza della giustizia civile. Per Ballio l’Italia potrebbe seguire due strade: «In Germania se un’impresa fa lievitare i costi oltre una certa soglia rischia la radiazione dall’albo delle imprese qualificate per le gare d’appalto. In Francia, invece, per le opere pubbliche è necessaria un’assicurazione obbligatoria. La Socotec è un’organismo indipendente che per conto delle assicurazioni valuta i progetti e l’avanzamento dei lavori. In questo modo i progettisti lavorano meglio, con un controllo tecnico e non meramente formale come in Italia». Il Paese delle eccezioni e degli azzeccagarbugli che allontanano gli investitori stranieri.