Io sono tra quelli che i musical non li reggono. Ogni volta che un attore apre bocca, magari in un momento topico del film, e invece di parlare si mette a cantare, a me viene il latte alle ginocchia, la narcolessia e pure un po’ di orticaria.
Quando sono andata a vedere al cinema l’anteprima di Les Misérables (in sala dal 31 gennaio), storico musical con la M maiuscola, due ore e mezza filate di canti per di più in inglese e senza sottotitoli, ero pronta al peggio, nonostante le sperticate lodi al film che arrivavano da Oltreoceano.
Invece la prima potentissima sequenza, con i condannati che sotto una pioggia fitta da far male cercano di issare un gigantesco vascello dentro un cantiere navale, mi ha inchiodato vigile ed emozionata alla poltrona. E così sono rimasta per (quasi) tutto il film. Non solo: la canzone che cantano questi schiavi mi si è insediata nel cervello e per due giorni interi non ho fatto che cantare “Look down, look down you’ll always be a slave”.
Inizia quindi in mezzo a una cupa tempesta questo super filmone che ha ricevuto 8 nomination per la prossima premiazione degli Oscar. Diretto da Tom Hooper, già premiato dalla Academy per Il discorso del Re, Les Misérables è un vero kolossal costato più di 60 milioni di dollari (ma 18,1 ne ha incassati in Usa nel solo giorno di Natale!). Vanta un cast di attori di prim’ordine e anche sorprendente se si considera che omaccioni come Hugh Jackman (Wolverin) e Russel Crowe (Il gladiatore) hanno recitato in abiti ottocenteschi cantando in presa diretta, scena per scena, perché così ha voluto Hooper, che si è rifiutato di aggiungere il sonoro in un secondo momento.
Il film si ispira al capolavoro di Victor Hugo, ma soprattutto alla rilettura che ne è stata fatta per il musical teatrale nato trent’anni fa, famosissimo spettacolo che è stato visto da 60 milioni di persone in tutto il mondo. Ambientato tra il 1815 e il 1832, racconta la storia di disperazione, caduta e redenzione di Jean Valjean (Hugh Jackman, che per il suo personaggio ha appena ricevuto un Golden Globe), un uomo rilasciato dopo 19 anni trascorsi ai lavori forzati che dovrà ricostruirsi una vita, ma anche due o tre, mentre viene braccato ovunque dal cattivissimo ispettore Javert (Russel Crowe). Nel frattempo Valjean si occupa anche di proteggere e crescere Cosette (Amanda Seyfried), la figlia della dolcissima Fantine (Anne Hathaway), morta di stenti dopo essersi ridotta a fare la prostituta pur di mantenere la sua bambina.
Sullo sfondo, ma neanche tanto, c’è una Parigi brulicante di miserabili, appunto, e insanguinata dai moti organizzati dalla borghesia contro la monarchia che si era reinsediata in Francia. La trama è quindi quella di un romanzone Ottocentesco, ma la regia potente e dinamica di Hooper riesce a renderla appassionante, soprattutto nelle scene di massa: per esempio quella degli schiavi o quelle degli scontri tra i rivoluzionari e i soldati del re.
Il duello continuo tra Valjean e Javert ci riporta a quello primordiale e sempiterno tra il Bene e il Male, tra la fede in Dio e l’odio per gli uomini. I due personaggi sono riuscitissimi e il merito va dato senza dubbio agli attori: Hugh Jackman sa trasmettere la sofferenza interiore, ma anche la forza di un uomo come Valjeant, e se la cava più che bene perfino con il canto. Allo stesso modo Russel Crowe riesce a impersonare in modo convincente un uomo accecato dall’odio (ma carico di dolore) come Javert, nonostante quella faccia da bue buono che si ritrova e anche nonostante una voce un tantino deboluccia.
L’altra grande performance è quella di Anne Hathaway, che vincerà l’Oscar come attrice non protagonista (io ci scommetto, ha già avuto per questa interpretazione un Golden Globe): è lei a rendere indimenticabile la sua Fantine, a cui ha sacrificato capelli e bellezza. Ma se dovessi dare un premio io agli attori lo consegnerei personalmente a Helena Bonham Carter e Sacha Baron Cohen: con i loro strampalati personaggi, mascalzoni e infingardi, portano l’elemento comico nel film, e la comicità arriva come una manna ad alleggerire il drammone.
Perché, lo devo dire, due ore e mezza qui sono tantine. Sul finale, infatti, la narcolessia ha fatto capolino (insieme all’orticaria): ci sono un po’ troppi duetti tra la bella Cosette e Marius, il suo innamorato rivoluzionario; e anche tra questo ed Èponine, la popolana a sua volta innamorata di lui, interpretata da Samantha Barks, la migliore del cast dal punto di vista canoro.
Ammetto però che la maggior parte del tempo l’ho trascorsa davvero un po’ incantata e ho pure riso e, quasi quasi, ho pure pianto: che un musical potesse emozionarmi così non l’avrei mai detto.
Articolo originariamente pubblicato sul blog Marta che guarda