BRUXELLES – Per dirla con Greg Slater di Intel, «le stelle sono quasi allineate». Un’immagine che ben delinea la congiuntura astrale favorevole a quello che, come la mette qualcuno a Bruxelles, sarebbe «il padre di tutti gli accordi commerciali»: un accordo di libero scambio tra Ue e Stati Uniti. Proprio questo giovedì a Dublino, il premier irlandese Enda Kenny, dal primo gennaio alla guida del semestre di turno della presidenza Ue, ha preannunciato che il gruppo di alto livello incaricato da Ue e Usa di riflettere sulla questione, presieduto dal commissario europeo al Commercio Karel De Gucht insieme al rappresentante commerciale Usa Ron Kirk, darà a breve la raccomandazione di dare l’avvio ai negoziati. Che potrebbero cominciare a giugno, con l’obiettivo di chiudersi nel corso del 2014. «Con 26 milioni di disoccupati nell’Unione Europea – ha detto Kenny – commercio e investimenti sono opportunità per rilanciare crescita e occupazione». Kenny non lo ha detto, ma gli europei a cominciare dalla Commissione guardano con preoccupazione anche alla possibile Transpacific Partnership, che unirebbe in un accordo commerciale gli Usa e l’area più avanzata dell’Asia rischiando di marginalizzare così l’Europa.
In gioco è un mercato gigantesco: gli scambi commerciali tra Usa e Ue si aggirano intorno ai 4mila miliardi di euro l’anno, dando lavoro a 15 milioni di persone. Inoltre il 60% degli investimenti Usa (per circa 1.500 miliardi di euro) sono diretti all’Ue, nell’altra direzione si parla di 1.200 miliardi di euro. In questi ultimi anni e mesi sono fioriti studi che pronosticano enormi vantaggi per un accordo che riduca o annulli le barriere tariffarie e non tariffarie. Ad esempio, stando alla Camera di Commercio statunitense, riducendo a zero i restanti dazi (in media tra il 5% e il 7%), il commercio tra le due rive dell’Atlantico incrementerebbe di 94 miliardi di euro in cinque anni, generando un aumento del pil complessivo (Usa+Ue) di 141 miliardi di euro. E in uno studio realizzato per la Commissione Europea da Ecorys, si calcola che l’eliminazione delle barriere non tariffarie (regolamenti, standard diversi etc.) porterebbe a un aumento dello 0,7% del pil Ue e dello 0,3% Usa.
L’accelerazione si è registrata a metà dello scorso anno, in particolare a Los Cabos, durante il G20 messicano di giugno: è stata in quell’occasione che i vertice Ue e il presidente Barack Obama hanno lanciato una dichiarazione congiunta sulla necessità di approfondire la questione, chiedendo al gruppo di Alto livello di procedere entro fine 2012-inizio 2013 a raccomandazioni sulla questione. I problemi non appaiono giganteschi, spiegano molti esperti, né si registra una levata di scudi di parte dell’industria europea analoga a quella contro accordi di libero scambio con Corea del Sud e Giappone. Problematiche rimangono, stimano gli esperti, le aree che riguardano l’1-2% del commercio totale tra le due parti. E si tratta in massima parti di barriere non tariffarie. Ad esempio i rispettivi sussidi ai due arcirivali nell’industria aeronautica civile Airbus e Boeing. O i diversi standard sul fronte farmaceutico o di sicurezza delle auto convenzionali (mentre ci sono già cooperazioni su quelli riguardanti ad esempio le auto elettriche). Restano problemi anche per le differenti concezioni di tutela ambientale, privacy e tutela dei consumatori.
Il nodo più grosso, però, è l’alimentare, settore in cui peraltro è particolarmente esposta l’Italia. Gli Usa sono irritati per il divieto di importazioni di carni bovine con estrogeni e di polli trattati con il cloro, così come per le limitazioni Ue sul fronte dei cibi Ogm (peraltro in costante riduzione, con disappunto di tanti consumatori). Temi, questi, che interessano un po’ tutti i paesi Ue, così come quelli legati alla Denominazione d’origine (cruciale soprattutto per i grandi produttori vinicoli dell’Ue). L’Italia, primo produttore Ue di olio di oliva, ha, insieme agli altri produttori dell’Unione (anzitutto Spagna e Grecia) un altro problema serio, visto che gli Usa hanno predisposto nuove misure per proteggere la propria produzione, imponendo di aumentare i test sugli oli importati dall’Ue dagli attuali 14 a 22, con un aumento di 7.000 dollari per ogni lotto esportato – un costo sostenibile per colossi come la Bertolli, ma non per i piccoli produttori. Il problema principale però, per l’Italia, è il cosiddetto “Italian Sounding”, e cioè prodotti dal nome più o meno italiano – il classico caso è il “Parmesan” prodotto in Usa e Canada. Secondo Confindustria, il mercato di questo tipo di prodotti (tra le “vittime” principali, oltre al Parmigiano, il provolone, la ricotta e la mozzarella) è dell’ordine dei 24 miliardi di euro, di cui solo 3 miliardi riconducibili ad aziende effettivamente italiane. Da ricordare anche i dazi imposti dagli Usa, a partire dal 2009 (12,4%), sulle paste di origine Ue.
«Molto deve esser fatto – si legge nella dichiarazione congiunta Ue-Usa di Los Cabos – per rafforzare e allargare i nostri legami». «Sono convinto – ha detto a dicembre anche il commissario De Gucht – che questo negoziato può e deve esser fatto rapidamente». Anche se, ammette, «ci vorranno anni prima che possiamo sentire davvero solidi benefici economici». Non sarà comunque facile, anche perché nel processo, grazie al nuovo trattato di Lisbona, sarà associato a pieno titolo il Parlamento Europeo. Il quale, in linea generale si è già espresso a favore di un accordo Usa-Ue, ma ha fatto capire anche un punto essenziale: su questioni come ogm, privacy, diritti dei consumatori, tutela d’origine alimentare darà battaglia.