Gli azionisti di tre delle quattro maggiori banche italiane hanno perduto oltre il 90% di quanto avevano investito nel 2007. Per la quarta le perdite si limitano al 75%. Per quelli che hanno acquistato obbligazioni argentine al momento del default andò molto meglio. Le fondazioni bancarie italiane hanno visto volatilizzarsi in meno di cinque anni un patrimonio che aveva origini plurisecolari. Talune banche popolari hanno distrutto ricchezza in termini di danni a uno specifico territorio tanto che per trovare qualcosa di simile si deve pensare ad una calamità naturale. Questo dal lato degli azionisti.
Dal lato dei clienti si deve pensare alla quantità devastante di derivati che hanno ammorbato i bilanci e compromesso il futuro di imprese sane, la quantità di titoli tossici di ogni tipo che hanno distrutto non solo i risparmi ma anche la voglia di risparmiare di centinaia di migliaia di famiglie, anche se, per alcuni, in quegli stessi momenti, il credito è stato facile come non mai ad alimentare speculazioni finanziarie e transazioni immobiliari molte delle quali sono oggi oggetto di cronaca giudiziaria.
L’acquisto dell’Antonveneta è stato soltanto il culmine di una stagione in cui gli sportelli, non soltanto per Mps ma anche per molte altre banche, sono costati oltre nove milioni l’uno solo di avviamento: chiunque avesse un minimo di buon senso avrebbe dovuto chiedersi quanto avrebbe dovuto rendere uno sportello per giustificare un simile costo e quanto avrebbe dovuto lasciare alla banca ciascun cliente: non c’erano trucchi e non c’erano inganni e da anni lo vado scrivendo, i prezzi erano scritti su tutti i giornali.
A ciò si aggiunga la crescita – anche quando era evidente il deterioramento degli indici – delle reti: costi fissi sempre crescenti e una relazione con le attività economiche dei territori di insediamento sempre più incomprensibile.
Le banche italiane si sono indebitate pesantemente verso l’estero creando uno squilibrio strutturale tra raccolta e impieghi e soprattutto senza preoccuparsi di pareggiare le scadenze tra raccolta ed impieghi. Non ci fosse stata la Bce vi sarebbe stato un problema di stabilità per il sistema. Difficile però meravigliarsi se le banche italiane non prestano nonostante il sostegno della Bce.
Il rischio di credito è stato per anni prezzato a zero o poco più ed adesso ci si accorge che i conti erano sbagliati e di molto, ma gli impieghi hanno durata talvolta pluridecennale: imprudenze che peseranno per molti anni sui conti economici delle banche italiane. Le garanzie reali e i titoli di Stato sono stati le garanzie preferite e incoraggiate anche dalla normativa di Vigilanza e i risultati sono stati evidenti non solo a Siena ma in tutta Italia.
Derivati, prodotti opachi, obbligazioni di soggetti prossimi all’insolvenza trattate fuori mercato hanno gonfiato i conti economici delle banche italiane per anni: poi hanno gonfiato i ruoli dei tribunali con costi di gestione e perdite da contenzioso impressionati eppure quasi secondarie se poste a confronto con le distruzioni di avviamento e i danni reputazionali che hanno cagionato compromettendo la propensione stessa al risparmio. È maturato l’odio popolare per le banche e perfino la Cassazione ha negli ultimi dieci anni modificato orientamenti consolidati da cinquant’anni, quasi che l’interpretazione del diritto non potesse sfuggire al disgusto popolare.
Una serie clamorosa di errori ha caratterizzato non la gestione delle banche ma del sistema bancario italiano negli ultimi dieci anni. È il regolatore che forgia l’ambiente competitivo: se c’è chi presta con lo 0,25 di margine il problema non è solo di chi presta, ma anche di tutti i concorrenti; se c’è chi ottiene profitti astronomici con i derivati è difficile spiegare ad azionisti non sempre molto esperti che usare disinvoltamente i derivati, oltre che essere disonesto, alla lunga sarà anche pericoloso; uno sportello aperto in perdita intanto aumenta la pressione competitiva anche su chi gli sportelli non li apre a caso e così via. L’unica vera regola che ha retto il sistema bancario italiano è stata meglio sbagliare in compagnia che fare giusto da soli.
Arriviamo al dunque: davvero qualcuno pensa che il rag. Gabriello Mancini, dipendente dell’Usl di Poggibonsi e l’avv. Giuseppe Mussari, giovane penalista calabrese, siano quelli che dettavano le regole? Quelli che le regole pensavano di poterle trasgredire? Mussari era il soldatino più disciplinato della compagnia tanto che l’hanno fatto presidente della compagnia, hanno perfino modificato lo statuto dell’Abi per non perderlo.
È sufficiente vedere chi sono gli uomini nuovi che arrivano per gestire una banca dove qualche problema particolare affiora: in genere settantenni o comunque coinvolti in gestioni passate assai scadenti di banche non certo additabili ad esempio. Le garanzie che danno non riguardano mai la gestione, ma le relazioni che essi promettono di sapere gestire. È questo quel che conta e solo questo.
Il modo in cui si è cercato di salvare Mps vale più di un trattato: gli interessi sul prestito dovevano essere pagati in azioni valutate al patrimonio netto quando il prezzo di borsa, con piena ragione – come si è visto – era un quinto del patrimonio netto. Chiaro lo scopo di non diluire la Fondazione: un azionista che forse le banche non le sa gestire ma le relazioni le sa comunque tenere molto bene.
L’autoreferenzialità è la caratteristica di un potere economico che condiziona la politica assai più di quanto possa esserne condizionato e che è passato in tutti questi anni dalla Banca d’Italia alle Fondazioni Bancarie al di fuori di qualsiasi legittimazione e controllo democratico. Per completare il quadro adesso alla Banca d’Italia arriva anche l’Isvap. Dalla Banca d’Italia si passa ai vertici delle istituzioni democratiche oramai di regola fino a prendere addirittura la Rai. Il collegamento con i mezzi di informazione è evidente e passa dal controllo del credito e della partecipazioni nei maggiori giornali di banche e finanziarie collegate alle fondazioni e ben vigilate dalla Banca d’Italia. Come per altri poteri italiani è l’autoreferenzialità a garantire la perpetuazione e la mancanza di trasparenza a preservare il prestigio.
I soldi stanno però per finire: Unicredit doveva essere l’esempio di una banca italiana controllata dalle fondazioni ed invece ormai azionisti esotici neppure molto noti pesano, almeno nei numeri, assai più delle fondazioni italiane. Vi fosse qualcuno che vuole scalare Unicredit non si vede chi in Italia potrebbe fermarlo (salvo i mezzi coercitivi). Non ci fosse stato Gheddafi all’ultimo minuto non si sarebbe saputo con chi sostituire la Fondazione Cariverona che si defilò da un aumento di capitale decisivo per la vita di Unicredit in un momento di grande turbolenza. La Fondazione di Siena ha finito da tempo i soldi e leggine di favore a Bruxelles non hanno incantato nessuno. Il presidente della Fondazione Cassamarca Dino De Poli è stato trionfalmente rieletto a 84 anni, dopo 25 anni di onorato servizio, ma il miliardo di patrimonio è perduto tutto e per sempre e anche le azioni Unicredit che aveva un tempo saranno di altri.
Fino a che la Bce continuerà a finanziare le banche italiane o almeno dirà di volerlo comunque fare, il sistema continuerà a funzionare. Poi i conti si dovranno fare anche lì, come sta cominciando a succedere per le Fondazioni. Fosse mai che alla Bce si stanchino di far credito a occhi chiusi, Mussari resterà alla storia come il primo caduto di una lunga rivoluzione.
*autore di Mala gestio, Marsilio, e uno degli ottanta soci de Linkiesta