Non si può essere garantisti a giorni alterni, e quindi anche in quest’occasione non verremo meno a quella che è, innanzitutto, una radicata e intima convinzione: ciascun indagato ha diritto a difendersi e saranno i tribunali a stabilire la verità. Ma quel che emerge dalla procura a proposito dell’agguato al consigliere dell’Udc di Torino Alberto Musy, in coma dallo scorso 21 marzo, è sconcertante a prescindere.
Al termine di lunghe indagini, per la Procura a sparare i cinque colpi di pistola contro Musy sarebbe stato Francesco Furchì, calabrese, definito faccendiere. Sarebbe stato lui, travestito da corriere, a farsi aprire la porta dall’avvocato e a farsi giustizia. Ecco il punto, farsi giustizia. Ma di cosa?
La tesi della procuratore capo Giancarlo Caselli è la seguente: Furchì si sarebbe vendicato per una serie di favori non concessigli da Musy, dinieghi culminati nella mancata candidatura alle comunali torinesi. Insomma, la vittima avrebbe pagato a caro prezzo la propria onestà intellettuale, la propria autonomia di giudizio, il non essersi prestato a quella ragnatela di piccoli favori e complicità che impregnano l’intelaiatura del nostro Paese.
Questa, ripetiamo, è la tesi della Procura. Furchì è stato fermato, e per ora nega ogni addebito. La ricostruzione degli inquirenti può convincere o meno, molto si basa sulla rielaborazione dei filmati in cui compare il presunto attentatore la mattina del delitto, con casco e borsa da corriere. Queste immagini sono state successivamente sovrapposte a quelle di Furchì e oggi, con i prodigiosi strumenti scientifici, è possibile accertare quanto le camminate siano simili e identificare persino una forma di valgismo.
Ma adesso, però, vorremmo soffermarci su altro. E cioè su quel che emerge dalle indagini della Procura. E, tristemente, emerge ancora una volta l’Italia. Nel nostro Paese basta grattare un pochino, appena appena, a ogni livello, per assistere sgomenti allo sgretolarsi di ogni parete. Furchì è una figura losca, a Torino si dice “loffio” e così lo ha definito alla Stampa l’ex sindaco Chiamparino, uno che vive di sotterfugi.
Cinquant’anni, presiede l’associazione “Magna Grecia Millennium”, nata per diffondere la cultura della Calabria nel mondo. Uno di quelli di cui non sai mai bene che lavoro faccia. Te lo ritrovi all’inaugurazione del volo Torino-Lamezia, onnipresente quando si parla di Calabria, sempre al telefono, non proprio benvoluto dai vicini di casa. La sede dell’associazione è registrata sotto falso nome, i dati inviati alla Camera di Commercio sono falsi, così come le coordinate bancarie del conto corrente in Monte Paschi. Insomma, un traffichino. E il suo universo, la sua vita, è una ragnatela di conoscenze, di aderenze. E così, dalle indagini della Procura, emerge che più volte Forchì avrebbe avvicinato Musy. E sempre per chiedere qualche favore, la solita spintarella all’italiana, il circoletto, l’aiutiamoci tra noi.
Una volta per perorare la causa del figlio di Salvo Andò (ve lo ricordate l’esponente socialista? A volte ritornano) in un concorso universitario per professore associato a Palermo. Per quest’incontro, Furchì si era preparato a dovere: si era fatto presentare da Pier Giuseppe Monateri, ordinario di Diritto privato, amico di Musy e soprattutto un nome a Torino. Eppure gli andò male. Pur essendo in giuria, Musy non votò a favore del giovane.
Non solo, ma l’aspetto più inquietante è che l’illustrissimo Monateri, sempre secondo la Procura, in una conversazione privata si sarebbe detto sicuro di aver riconosciuto l’assassino ma avrebbe preferito ugualmente tacere. Si sarebbe signorilmente limitato a lasciare sulla sua scrivania all’università un bigliettino (poi portato da uno studente alla polizia) con su scritto: “Nano Acerbis ce l’ha insegnato, sparare agli stronzi non è reato”. Tu chiamalo, se vuoi, luminare.
Furchì non si sarebbe però arreso al primo diniego ed era tornato alla carica di Musy chiedendo un aiuto finanziario per rilevare la Arenaways. Anche in questo caso, però, non ottenne alcunché. E, al patron della compagnia ferroviaria che lo lasciò fuori, disse: “Sappiamo dove abiti”. L’affronto finale, quello che lo ha mandato su tutte le furie, è stato il no alla candidatura nelle file dell’Udc.
Tutto questo, ovviamente, non basta per condannare un uomo di omicidio o tentato (Musy, tra l’altro, è in coma ma è ancora vivo). Basta e avanza, però, per comprendere ancora una volta che cosa sia il nostro Paese (a ogni livello e a ogni latitudine, anche nella sabauda Torino) e quanto sia dura cercare di recitare la propria parte senza cedere a compromessi. Quel che emerge, plasticamente, è ancora una volta l’intelaiatura immorale della nostra Italia. Chissà se è stato davvero Forchì a sparare a Musy. Se così fosse, Musy sarebbe un eroe sacrificato sull’altare della raccomandazione e del piccolo inciucio. Un martire di quest’Italia disgustosamente disonesta.