TEL AVIV – «Stamattina, a due isolati da qui, un immigrato ha stuprato una signora di 83 anni nel cortile di casa sua, per ore». È amaro lo sguardo di Liron mentre osserva i tetti dei palazzi di Tel Aviv, dalla sua casa nella zona Sud della città. L’appartamento si trova al terzo piano: è un open space con un finestrone che affaccia sul tetto in lamiera di una discoteca, e la porta blindata in metallo. Vive con il suo compagno e una figlia di un anno. Lavora come account in un’agenzia di comunicazione, mentre lui è fotografo con uno studio avviato. «I miei genitori non abitano a Tel Aviv, ma la prima volta che ci sono venuti a trovare sono rimasti impressionati. Per anni la città ha accolto immigrati dall’Eritrea e dal Sudan senza un vero piano d’integrazione. Così si è formata questa banlieue. È una delle poche zone in cui gli affitti sono ancora a un livello sostenibile».
È la zona della stazione di Tel Aviv, da mesi al centro di furiosi dibattiti su piani di recupero. Per la via s’incontrano quasi solo volti d’immigrati, tra voglia di riscatto e polemiche dovute a terribili episodi di violenza. Quello della povera anziana è solo l’ultimo di una serie, dagli arrivi in massa di diseredati a partire dal 2006. Nel febbraio 2012 una banda di ubriachi se l’è date dentro la stazione, con le immagini raccapriccianti trasmesse su “Channel 2”, la principale emittente israeliana.
Sono iniziate le proteste nel quartiere, anche violente, con il premier Benjamin Netanyahu che ha risposto muscolarmente affermando che «presto sarà completata la costruzione di una barriera [al confine con l’Egitto, nda] e potremo rispedire gli immigrati verso le proprie zone d’origine». Nel quartiere si sta diffondendo però dell’altro, che i muri di Netanyahu riusciranno difficilmente a risolvere: un’epidemia di HIV, trainata da un nuovo tipo di narcotico che costa 20 shekel (4 euro) la dose – rispetto ai 50-100 shekel (10-20 euro) di un narcotico tradizionale.
Rimane la questione della classe media israeliana. Quella della famiglia di Liron è una storia comune: doppio reddito, età produttiva (attorno ai trent’anni), non più di una figlia da mantenere. Ma ciò non basta per evitare di dover cercar casa in un quartiere disagiato. I dati confermano la tendenza: in tutto Israele l’aumento dei costi abitativi negli ultimi cinque anni è stato il terzo al mondo, al 52,7%, dopo Hong Kong e la Cina. A Tel Aviv, centro del centro, la situazione è ancora più estrema. Un appartamento in una zona residenziale in buono stato può richiedere un esborso di 6-7.000 euro al metro quadro: sono prezzi che fino a qualche tempo fa non si riuscivano neanche a immaginare.
Non è un problema per i protagonisti dell’élite economica del paese, con le grandi aziende informatiche che qui hanno situato i quartier generali per la gestione del bacino mediterraneo. Non è un problema neanche per tutti coloro che si sono trasferiti in Israele per beneficiare dell’esenzione totale fiscale per dieci anni per tutti i profitti realizzati all’estero (una controversa novità che è piaciuta a molti imprenditori e troppi malavitosi). Per tutti gli altri, Tel Aviv rischia di sembrare sempre di più la New York dei banchieri: i lavoratori a salario fisso sono in grande difficoltà. Infermieri, poliziotti, insegnanti e docenti universitari sono costretti a spostarsi al limite della città.
È impossibile scindere i problemi economici di Tel Aviv da quelli del resto del paese. La protesta di “Occupy Tel Aviv” nel 2011, filiale locale dei movimenti Occupy in tutto il mondo, era nata quasi per caso proprio per attirare attenzione sulla questione abitativa. Il boom dei prezzi era dovuto non solo alle politiche di tassi d’interesse basso – la stessa dinamica che, riducendo il costo dei mutui, ha provocato il boom immobiliare anche in Europa e negli Stati Uniti. C’è una questione sociale alla base del tutto. «Tel Aviv sembra essere l’unico posto in cui ormai sia consentito vivere ai giovani in Israele», sono le parole estreme di Itai, ingegnere civile che condivide il proprio appartamento con la compagna, avvocato specializzata in arbitrati. «Sia al Nord», continua, «che al Sud, è in atto una radicalizzazione sociale sempre più opprimente. Tutti i ragazzi vogliono venire a vivere a Tel Aviv. È normale che i prezzi siano aumentati».
Il sospetto poteva essere che tutta la protesta di Tel Aviv e dei giovani fosse dovuta a speranze disattese. La città israeliana contiene percentuali superiori alla norma di aspiranti creativi, aspiranti attori, aspiranti musicisti, aspiranti registi. La maggior parte ha prestato servizio di leva per tre anni (gli uomini) o per due anni (le donne). Dopo, è normale che i giovani viaggino per il mondo anche per un anno, con le mete favorite rappresentate dal Sud America e dal Sud-Est asiatico. «Una volta tornati», sostiene Itai, «hanno l’atteggiamento di chi può pretendere qualcosa. Se invece trovano redditi miseri e affitti alle stelle, protestano». Ma non si tratta solo di speranze e delusioni: lo stesso Itai e la sua compagna, nonostante lavori specializzati, devono lavorare dodici ore al giorno per mantenere un appartamento di cinquanta metri quadri in una buona zona residenziale di Tel Aviv.
Sul muro, la scritta dice: “La rivoluzione ha bisogno di te”
Tutte le persone che incontriamo hanno un’opinione personale sul perché gli stipendi siano così bassi. Alcuni sostengono che si tratti del problema degli ultra-ortodossi e degli insediamenti in Cisgiordania: «dobbiamo pagare per queste migliaia di persone che non lavorano, e per le loro scuole inutili, e per le loro case», dichiara Tal, laurea in legge e impiego («temporaneo», sostiene) in un bar notturno del quartiere Florentin. Gli ultra-ortodossi, sorta di salafisti in versione ebraica, sono visti con il fumo negli occhi da molti giovani secolarizzati di Haifa e Tel Aviv. Figliano a ripetizione e mandano la prole in scuole dove non s’insegna la matematica, per favorire lo studio dei testi sacri. Chiaramente non prestano servizio militare e devono essere mantenuti con cospicui assegni di disoccupazione, visto che il 60% sceglie di non lavorare.
Quest’idea, secondo alcuni, sembrerebbe incontrare pochi riscontri nella realtà finanziaria attuale. La professoressa Tali Regev dell’Università di Tel Aviv, Ph.D. in Economia conseguito a Boston (Mit), sostiene che è difficile calcolare quante siano le rimesse totali verso ultra-ortodossi e insediamenti, in quanto «disperse tra una molteplicità di ministeri e agenzie. In totale, comunque, dovrebbero essere attorno al miliardo di shekel (duecento milioni di euro) l’anno». Altre fonti arrivano a stimare costi annuali per 5 miliardi di shekel (un miliardo di euro), ma comunque si tratta di troppo poco per spiegare la crisi economica. Regev ritiene inoltre che l’aumento dei prezzi immobiliari sia dovuto anche a un “recupero” delle quotazioni, che cinque anni fa era più basso rispetto alle grandi città in tutto il mondo. Per quanto riguarda il problema dei salari e della disoccupazione giovanili, «la situazione non è diversa da quella di altre grandi città del mondo». Aggiunge, non senza una certa malizia, che è «comunque migliore rispetto all’Italia».
Forse gli ultra-ortodossi diventeranno un problema finanziario vero quando cresceranno in numero, e viste le statistiche demografiche l’eventualità è probabile. Per ora, sembra che l’economia israeliana sia preda di inefficienze proprie dei sistemi occidentali, insieme a una questione tangibile di aspettative disilluse. «Noi la chiamiamo fraiel mentaliut [mentalità del non farsi fregare, ndr]», sostiene Itai dal suo bell’appartamento di Tel Aviv. «Si tende a sfruttare i più deboli, e i giovani non riescono a difendersi. Per questo non abbiamo potuto fare nulla contro le privatizzazioni, che hanno riguardato numerosissimi settori, e hanno fatto aumentare i costi per tutti».
Sembrerebbe l’Italia, ma Israele è differente. La disoccupazione è al 6,7%, e tende a scendere, mentre l’economia è cresciuta quasi del 5% nel 2011 e del 3,3% nel 2012, con previsioni del 3,8% per il 2013. Eppure, secondo un sondaggio di “Times of Israel” pubblicato il 10 gennaio, i problemi economici (spese familiari e costi abitativi) rappresentano la maggior preoccupazione per il 43% degli israeliani – mentre per appena il 16% la maggior preoccupazione è rappresentata dal «deteriorarsi dei rapporti con i palestinesi in Giudea, Samaria [Cisgiordania, ndr] e Gaza». Chi credeva che la guerra di Gaza del 2012 fosse una strategia di Netanyahu per distogliere l’attenzione dai problemi economici si è dovuto ricredere – o, almeno, la strategia non ha funzionato.
In un’altra dinamica molto simile alle tendenze occidentali, sembra che le spese statali siano troppo alte per mantenere il deficit annuale sotto il 3%. E proprio su motivi di budget è caduto l’attuale governo, così Bibi ha chiesto il controllo delle urne per il prossimo 20 gennaio. Si parla di introdurre piani di austerità che taglino fino al 4% della spesa pubblica, oltre ad aumenti nella tassazione sul reddito a seguire mosse analoghe completate negli ultimi due anni. Sembra che la chiave per spiegare il paradosso israeliano, tra crescita e stipendi miseri, dipenda dalla ricetta americana che unisce tassi d’interesse bassi e tagli della spesa. Così facendo cresce l’economia e diminuisce la disoccupazione (perché contrarre crediti è più facile), ma aumenta anche l’inflazione. In questo modo, l’economia si polarizza.
Ci rimette la classe media, cervello della cultura israeliana fin dalla fondazione. I giovani emigrano: la comunità israeliana di Berlino ha raggiunto le 20.000 persone, senza includere gli israeliani con passaporto tedesco. Chi rimane spera. Magari ha rinunciato comunque a vivere a Tel Aviv. Spiega Liron dalla sua casa nel Sud di Tel Aviv, mentre la figlia gattona nell’open space, di avere «fatto domanda per l’ammissione in un kibbutz nel Golan. Devono sceglierci sulla carta, e se dopo un colloquio gli piacciamo, dobbiamo pagare una quota di 100.000 shekel (20.000 euro) per il primo anno di residenza. Se passiamo un’altra votazione dobbiamo pagare un’altra volta la stessa quota e possiamo costruirci una casa». Il kibbutz segue regole di condivisione della proprietà vagamente ispirate ai kibbutz delle origini. Del resto, conclude Liron pensierosa, «penso sia un posto migliore dove far crescere mia figlia, rispetto a qui». Sembra difficile darle torto.