Nelle liste per le elezioni al Consiglio regionale lombardo c’è un candidato particolare. È milanese ma anche americano (è nato cinquant’anni fa a Chicago, dove il padre insegnava fisica): è Marco Bassani insegna Storia delle dottrine politiche in Statale ed è un apprezzato studioso di Jefferson e della cultura statunitense. Il suo nome è associato a due cose: all’introduzione in Italia del pensiero libertario – tradusse Rothbard nel 1996 – e a Gianfranco Miglio, di cui fu per anni uno strettissimo collaboratore.
Ora Bassani ha accettato, come indipendente, di correre insieme a Oscar Giannino delineando un programma radicale, che unisce liberismo e autodeterminazione. Perché?
Per anni non ho mai pensato di candidarmi, ma negli ultimi mesi la situazione è precipitata. I miei figli sono cresciuti nella undicesima area metropolitana più avanzata del pianeta, che ormai rischia di diventare la centesima. Il crollo di Milano sarà terribile, perché la sua situazione era ben diversa da quella del resto del paese. Per giunta, negli ultimi mesi è iniziato il risveglio delle piccole patrie, proprio mentre il carrozzone europeo del cartello degli Stati nazionali arranca, con i suoi progetti giacobini fuori tempo massimo. Catalogna, Veneto, Scozia, Fiandre: voglio provare ad aggiungere la Lombardia al novero delle piccole patrie che chiedono di essere libere. È una scommessa, ma mi sembra nella direzione in cui la storia si sta muovendo.
Giannino vuole fermare il declino, ma taluni auspicano invece un’accelerazione della crisi, per risolvere definitivamente le contraddizioni italiane. Cosa risponde?
Occorre cautela quando sono in gioco i risparmi di milioni di persone che hanno lavorato una vita intera. Invocare il tanto peggio tanto meglio non è una strategia degna di persone intelligenti. Ma per fermare davvero il declino occorre bloccare il flusso di risorse che dalla Lombardia prende l’autostrada del Sole e poi la Salerno-Reggio Calabria. Altrimenti non si ferma proprio un bel nulla. Il problema del socialismo è che i soldi degli altri a un certo punto finiscono. E lo spreco pubblico italiano è finanziato dai lombardi: è giunto il momento di capire quanto di controvoglia. La più selvaggia redistribuzione territoriale della storia – quella che vede i lavoratori lombardi staccare un assegno a fondo perduto di 11.000 euro all’anno pro capite per il privilegio di far parte di questo paese – è arrivata al capolinea. Lo afferma con chiarezza il sociologo di sinistra Luca Ricolfi ne Il sacco del Nord.
I lombardi devono scegliere se finanziare ancora un po’ i consumi del Mezzogiorno e con questo garantire ai propri figli una discesa in un terzo mondo indifferenziato, oppure iniziare una lunga battaglia per decidere del proprio futuro.
Non c’è il rischio di danneggiare il Sud?
No. Solo così possiamo aiutare le popolazioni meridionali, che dallo Stato assistenziale hanno avuto in dote la distruzione della loro società civile. Solo un Meridione libero dalla droga fornita dai lombardi rinascerà. Questo ogni persona intelligente del Sud lo sa: è solo la paura del futuro e la sfiducia in se stessi che spinge i meridionali a votare per i partiti della spartizione del bottino, Berlusconi, Bersani e Monti. Purtroppo cosi facendo si troveranno in brevissimo tempo a Sud di nessun Nord. I meridionali sono emigrati ovunque e in tutto il mondo hanno avuto successo: tranne che a casa. E lo sapete perché? Il sud d’Italia è l’unico posto nel quale sono assistiti, vezzeggiati, e in realtà trattati come le popolazioni coloniali una volta. Se il sud smette di essere una colonia, i meridionali avranno successo anche a casa propria.
Negli anni Novanta ha lavorato a stretto contatto con il professor Miglio. Ritiene che il suo pensiero sia ancora attuale?
Miglio è stato il mio maestro. Il mio modo di guardare alla politica di oggi, ma anche a quella americana di due secoli fa (il mio oggetto di studio), è fortemente influenzato da tutte le sollecitazioni ricevute da lui. La vera forza di Miglio stava tutta nella capacità, rarissima, di rendere cristallini concetti complicati. Di studiosi ne avevo già incontrati molti, anche di grandissimo valore intellettuale, ma di fronte a Miglio mi scoprii avvolto da un’atmosfera di lucidità e chiarezza che non avevo mai incontrato prima, né mi è mai stato dato di ritrovare in seguito. Anche il mio liberalismo classico è nutrito delle sue idee. Nella sintesi di Miglio, il declino dell’obbligazione politica comporta la prevalenza delle decisioni pattizie e negoziate sugli atti d’imperio. Ossia, la vittoria del contratto liberamente scelto sul patto politico imposto. Il pensiero di Miglio è quanto di più attuale vi possa essere, perché la sua analisi individua tutti i nodi irrisolti della politica italiana.
Recentemente Alessandro Vitale, coautore con Lei quindici anni fa di un volume su “I concetti del federalismo”, ha dedicato un saggio al controverso tema del riconoscimento di nuovi stati in ambito internazionale, a seguito di processi secessionisti. Se Lei verrà eletto, ha dichiarato che cercherà di indirizzare il Consiglio Regionale verso il rafforzamento delle relazioni bilaterali dirette con istituzioni straniere e sovranazionali (Catalogna, Svizzera, Unione Europea). Cosa intende fare?
Vitale è uno studioso raffinato delle relazioni internazionali. Con lui abbiamo sempre condiviso tante idee a partire dalla convinzione che la Lombardia debba instaurare rapporti diplomatici diretti con il governo scozzese e con quello della Generalitat de Catalunya, al fine di concordare azioni comuni in sede europea. Ormai la definizione di procedure certe (democratiche, pacifiche e ragionevoli) per garantire processi di federalizzazione autentici, richiedendo il consenso delle popolazioni sulle grandi questioni che le riguardano, è inaggirabile. La democrazia ha una sua logica, ma deve essere applicata integralmente. Bisogna soprattutto chiedere ai lombardi se vogliono restare in Italia oppure no. Non saremo entro un ordine davvero democratico fino a quando questo diritto ad autodeterminarsi non sarà riconosciuto.
Il livello raggiunto dalla tassazione italiana supera, secondo molti,
ogni ragionevole soglia di tollerabilità, come dimostra il crollo verticale del tasso di intrapresa e degli scambi commerciali interni. Cosa ne pensa?
Questo è il cuore della politica italiana e deve diventare il centro di quella lombarda. Il governo di Roma si regge su una sola cosa: le tasse dei lombardi sono a disposizione per essere utilizzate come “ammortizzatore sociale” nei confronti dei gravissimi problemi del Mezzogiorno. Una quota assai consistente, secondo molte fonti fra il 15 e il 20 percento, del PIL della Lombardia viene impiegata in altre regioni italiane. La tassazione sulle persone fisiche che lavorano è oltre ogni immaginazione: è stato quantificato che un operaio consegna allo Stato il 66 percento di ciò che guadagna, un quadro il 72, un dirigente il 77. Lo Stato prende dai 2/3 all’ottanta percento della ricchezza prodotta. Nell’Ottocento si riteneva che oltre il 10% di pressione fiscale avrebbe distrutto l’economia, sciocchezze si dice oggi. Bene, ma dove ci si deve fermare? Quando è che lo schiavo fiscale si rende conto della sua situazione? E soprattutto, è impossibile resuscitare un apparato produttivo una volta che questo sia stato distrutto dalla tassazione. Oggi stiamo morendo di tasse (lo dice il presidente di Confindustria, non certo un liberista selvaggio) per mantenere un debito pubblico abnorme e consumi delle popolazioni meridionali più alti di quanto sarebbero se fosse calcolata solo la loro partecipazione al processo produttivo.
Dobbiamo fare qualcosa. E non lo si potrà mai fare a Roma.