Perché falliscono le nazioni? Il caso da manuale del Congo

Perché falliscono le nazioni? Il caso da manuale del Congo

Se per fallimento intendiamo assenza di pace, stabilità politica, equa distribuzione delle risorse, mancato accesso della popolazione ai diritti primari, allora sì, la Repubblica democratica del Congo è una nazione fallita (nel 2012 si piazza al secondo posto della classifica di The Fund for Peace).

È utile, ma non sufficiente, ricordare i concetti di “Why nations fail?” che Linkiesta ha spesso richiamato. Secondo il saggio, le nazioni falliscono quando le istituzioni sono “estrattive” ed elitarie, cioè quando «sono strutturate per estrarre risorse da molti per distribuirle a pochi, i diritti di proprietà non vengono protetti e gli incentivi per l’attività economica sono insufficienti». Nel caso della Rdc il paradigma di Daron Acemoglu e James A. Robinson è utile, aderisce perfettamente ai concetti base. Il Congo non ha mai imboccato la via della ricchezza e non ci sono al momento i presupposti per imboccarla.E la parole “estrattive” ed “elitarie” in senso stretto sono quanto mai azzeccate. Chi guida il paese non ha le capacità (volontà?) per risollevarlo.

Ecco alcuni fattori, accessori ai precedenti e che in parte li permettono e giustificano.

– Partiamo dall’ennesima ribellione in Kivu, est del paese, dove il movimento ribelle M23 a novembre ha addirittura occupato Goma, la capitale della regione, per poi ritirarsi a pochi chilometri. Il movimento nato dalle ceneri del vecchio Cndp (Consiglio nazionale per la difesa del popolo) è supportato da Rwanda e Uganda. Un recente rapporto Onu lo dice chiaramente (armi, uomini e logistica vengono dai due paesi vicini). Ovviamente Uganda e Rwanda negano ogni coinvolgimento. Gli interessi dei paesi confinanti sono rivolti alle ricche risorse minerarie della regione: oro, coltan, diamanti. L’obiettivo è destabilizzare per sfruttare. L’esercito congolese poco è riuscito a fare contro i ribelli e ha ancora una volta denunciato le sue debolezze strutturali.

Decine di rapporti denunciano la perversa spirale in cui le risorse naturali sono usate per finanziare gruppi armati che sfruttano queste risorse. Recenti studi di Eurac parlano di 40 gruppi armati diversi nella regione.

Proviamo a ricapitolare le ragioni di una instabilità perenne:

L’eredità della guerra africana che ha fatto 4 milioni di morti è pesante e dispiega i suoi effetti tuttora. Il genocidio rwandese e la mai completamente risolta questione hutu-tutsi rimane brace sotto la cenere (in verità in tutta l’area). In Rdc, non esistono istituzioni forti e paragonabili agli standard europei.

– Esercito assente: non solo non tutela la sicurezza dei cittadini anzi a volte è una minaccia. Corrotto, inefficiente, non preparato è spesso un pericolo per la popolazione al pari dei gruppi ribelli. Un soldato congolese guadagna in media tra i 30 e i 50 dollari al mese. Quando con il suo plotone, dopo una marcia di chilometri, entra in un villaggio ha fame e sete e ha bisogno di un riparo. Spesso il villaggio diventa base logistica e di supporto al plotone. Volente o nolente.

– Élite corrotta e apparato burocratico “tartaruga”. L’amministrazione congolese è lenta, inefficiente. Non ha a disposizione tecnologie di alcun tipo. L’elettricità non copre tutto il paese. In molti villaggi vedere una macchina da scrivere è un evento. Un censimento reale della popolazione è impossibile. Secondo uno studio della World Bank, aprire una piccola impresa richiede 65 giorni (40 giorni in media nell’africa subsahariana, 3 giorni in Rwanda, la svizzera africana).

– Organi indipendenti? La Ceni, la commissione elettorale indipendente fu bersaglio di una pioggia di accuse alle recenti elezioni. Nel novembre 2011 le elezioni presidenziali hanno visto un acceso dibattito proprio sull’organo di vigilanza, presieduto da un amico stretto del Presidente Kabila (poi riconfermato alla guida del paese).

– Scollamento e scarso senso di nazione. In Rdc si parlano lingue differenti (lingala e swahili per esempio) e spesso è il senso di appartenenza etnico a prevalere su quello di nazione. Da questo punto di vista Kinshasa (la capitale) non riesce a promuovere un senso di nazione e di comune appartenenza.

– Le stampelle straniere. La missione Monusco dell’Onu è forse la più grande al mondo, con circa 20mila uomini. La sicurezza e la protezione della popolazione in vaste aree del paese dovrebbe dipendere dai caschi blu. La storia ci ha consegnato esempi di tragica inefficacia. E poi ci sono gli aiuti stranieri a pioggia, le organizzazioni non governative (un centinaio circa nella sola Goma in Kivu) che erogano quei servizi che lo stato non riesce a dare. Quanto la “stampella straniera” è un alibi per Kinshasa per non prendersi le sue responsabilità? Quanto la creazione di “parastati” da parte delle ong frena la crescita dello stato congolese? Il dibattito sugli aiuti di stato (Dambisa Moyo) ma anche sugli aiuti umanitari (David Rieff) a paesi che non crescono anzi che frenano la loro crescita è aperto da anni.

– Da ultimo, in generale le speranze e le aspettative dei congolesi (quella di vita è di 48 anni) verso le istituzioni, lo Stato e la politica sono minime. Senza generalizzare, ma la disaffezione e la disillusione verso il potere e le sue capacità di migliorare le condizioni di vita sono assai diffuse, sia nella capitale Kinshasa che all’est del paese. Al contrario la società civile è attiva e vitale e le iniziative anche nelle zone rurali più sperdute sono all’ordine del giorno. I congolesi ci provano, lottano quotidianamente contro mille difficoltà e contro uno stato (fallito) che pare moltiplicarle.