Quer pasticciaccio brutto della Sanità del Lazio

Quer pasticciaccio brutto della Sanità del Lazio

Comincia con questa puntata il viaggio de Linkiesta nel Lazio, dopo la prima sulla Lombadia, uscita ieri. Punti di forza e di debolezza dei due territori più importanti del Paese, chiamati al voto per le Regionali – oltre che per le Politiche – il prossimo 24-25 febbraio, in un lungo racconto sul campo che accompagnerà i lettori fino alle elezioni.

Roma, 9 gennaio 2013. Venticinque ambulanze del servizio 118, l’azienda pubblica che svolge le prestazioni di pronto soccorso medico, restano ferme per l’intera mattinata all’interno degli ospedali della Capitale a causa della mancanza di posti letto nelle strutture sanitarie. Le altre 55 ambulanze disponibili sono impegnate per chiamate già ricevute. Per ore regna lo stallo assoluto in un comparto nevralgico per la garanzia della salute dei milioni di cittadini, residenti, lavoratori e turisti. L’area più colpita e penalizzata è quella di Roma Est, in cui l’ospedale Sandro Pertini e i policlinici Tor Vergata e Casilino non riescono a fronteggiare l’elevata richiesta di ricoveri e una cronica realtà di sovraffollamento.

Così, in attesa che venga ristabilito un livello minimo di funzionalità, numerosi pazienti sono costretti ad aspettare in barella l’assegnazione di un posto letto. Soltanto nel pomeriggio, dopo che il ministro della Salute Renato Balduzzi chiede ufficialmente una relazione urgente al 118 e la governatrice dimissionaria del Lazio Renata Polverini incontra i vertici dell’azienda regionale per l’emergenza sanitaria, il quadro torna alla normalità. E così il 118 della Capitale può riprendere un’attività il cui valore essenziale può essere compreso grazie a poche cifre: un milione di chiamate ricevute in un anno per oltre 330mila interventi. A fronte di una simile mole di lavoro, i cittadini possono contare su 80 autovetture di pronto soccorso per il 20 per cento dotate di un medico a bordo, 4 auto-mediche e 3 elicotteri che però devono coprire tutta la regione.

Il personale operativo, che include dottori, infermieri e autisti, ammonta a circa mille persone. Si tratta di dati che possono esemplificare lo stato di inadeguatezza delle strutture operanti nel territorio di una grande metropoli rispetto alle esigenze della collettività. Soprattutto in un periodo di epidemia influenzale come quello in corso, che ha provocato un afflusso rilevante di persone ai pronto soccorso anche per la contemporanea riduzione del ricorso alle vaccinazioni. E per la forte diminuzione del livello di assistenza capillare sul territorio da parte dei medici di base. Una carenza che getta piena luce sui ritardi irrisolti e sulle ragioni profonde dei disagi riscontrati nel pianeta salute della regione Lazio. Perché la mancanza di un’efficace e moderna rete di protezione diffusa nelle realtà provinciali, conforme alle molteplici necessità presenti nel territorio, si trascina da decenni nonostante le promesse solenni dei governi di ogni colore politico che si sono alternati alla guida della Pisana.

All’origine di una realtà che rischia un collasso dalla portata incalcolabile è l’endemico e annoso problema degli enormi deficit sanitari accumulati e sedimentati nel corso dei decenni grazie alle politiche delle diverse giunte. E che a partire dall’inizio del terzo millennio ha portato alla cifra record di 10 miliardi di euro l’ammontare complessivo del debito pubblico nel comparto Salute. La regione Lazio, che riceve ogni anno oltre 9,5 miliardi di euro dal Fondo sanitario nazionale ma ne spende 11 nello stesso arco temporale, registra nel 2011 quasi 1,2 miliardi di passivo. Per evitare il fallimento di un comparto strategico e vitale e la paralisi nelle prestazioni offerte ai cittadini, l’amministrazione locale ha l’obbligo di concordare con il ministero dell’economia i piani di rientro dal debito.

E nell’ultimo anno il progetto di risanamento è stato concepito e presentato ai direttori generali delle aziende sanitarie dall’ex commissario per la Sanità del Lazio Enrico Bondi. Il cui obiettivo, a fronte di dati che rivelano un deficit tendenziale per il 2012 di 708 milioni di euro e per il 2013 di 900 milioni, è il raggiungimento dell’equilibrio di bilancio tra il 2014 e il 2015. Ma per conseguire la finalità di conti pubblici virtuosi e di un governo efficiente della salute regionale, il programma messo a punto dal responsabile per la spending review dell’esecutivo guidato da Mario Monti ha previsto interventi assai dolorosi e pesanti.

Innanzitutto, un taglio immediato di quasi mille posti letto soprattutto in tre importanti ospedali di Roma: San Filippo Neri, Sant’Eugenio e Santo Spirito. Poi la riconversione e l’accorpamento di quattro poli medici nel territorio della Capitale: il San Filippo Neri, il Centro traumatologico e ortopedico, l’ospedale Oftalmico e l’azienda sanitaria Forlanini. Altro punto qualificante del documento è la riduzione retroattiva del 7 per cento del budget pubblico per le prestazioni sanitarie offerte ai cittadini nel 2012 dalle strutture private accreditate. Ma l’intervento forse più radicale contenuto nell’iniziativa portata avanti da Bondi è nell’eliminazione di altri 1.936 posti letto in tutto il territorio regionale. Il che equivale alla chiusura di decine di piccoli ospedali e presidi medici permanenti attivi anche nei centri più periferici e meno popolosi.

Una scelta che il commissario ha giustificato invocando l’applicazione del parametro di tre letti ogni mille abitanti introdotto dalla spending review. E che ha provocato aspre reazioni da parte di diversi rappresentanti sindacali. Tra i quali Gianni Nigro, esponente del comparto Funzione pubblica della Cgil: «Su questo punto i conti non tornano. Nel Lazio vivono 5 milioni 728mila persone. Gli attuali posti letto per ricoveri sono 18.160, pari al 3,17 per mille abitanti. Per arrivare al 3 per mille dobbiamo tagliare 974 posti letto, ma Bondi parla di un taglio di duemila posti. Qualcosa di più di un semplice errore aritmetico». Tuttavia il piano messo a punto dall’ex commissario per la salute del Lazio prefigura una direzione alternativa imperniata sul rilancio delle cure diffuse sul territorio grazie alla creazione di 2.500 posti residenziali e semi-residenziali da destinare alle persone non autosufficienti, agli anziani, ai disabili e ai pazienti terminali, e da attivare entro il 2013. A questi se ne aggiungeranno altri 3.500 entro il 2015.

Gli interventi individuati nel piano prevedono infine il rafforzamento dell’assistenza domiciliare e il consolidamento della dotazione dei posti letto ordinari nei presidi con pronto soccorso. Un complesso di iniziative che rientra nelle cinque linee d’azione previste dall’ex commissario per la Sanità del Lazio nel 2010: rafforzare la rete dell’emergenza, ridurre la frammentazione assistenziale aggregando le alte specialità per rafforzare e valorizzare le eccellenze, ristrutturare la logistica della rete ospedaliera con l’intento di razionalizzarla, potenziare l’offerta assistenziale nelle province per decongestionare l’area romana e garantire una migliore equità di acceso sull’intero territorio regionale, realizzare un monitoraggio stringente delle dimissioni ospedaliere.

Tuttavia l’aspirazione a dare vita a una nuova Sanità capillare, flessibile, tempestiva e rispondente alle esigenze delle comunità territoriali, è rimasta sulla carta. A spiegare le ragioni dello stallo e delle drammatiche ricadute sociali dell’applicazione dei contenuti del piano è il coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato Giuseppe Scaramuzza. La mancanza più grave, spiega il responsabile della storica associazione nata dalle campagne di Cittadinanzattiva, consiste nel fatto che al taglio dei piccoli ospedali sul territorio non è corrisposta l’immediata creazione di strutture di assistenza sanitaria capillare e di medicina diffusa.

Le province più penalizzate da tale lacuna sono Rieti, Viterbo, Latina e soprattutto il Frusinate, mentre nella Capitale è l’area orientale e sud-orientale a presentare il tasso più basso di posti letto per abitante: il 2 per mille rispetto al 3,5 per mille fissato dai parametri standard e al 6-7 per mille riscontrato nella zona centro-settentrionale della metropoli. Ad aggravare un quadro già fortemente critico, evidenzia il rappresentante dell’organizzazione a difesa dei pazienti, è l’enorme difficoltà nel ricorrere durante i giorni festivi a cure domiciliari e all’assistenza ambulatoriale, i ritardi e le carenze nelle cure di riabilitazione cui spesso i cittadini provvedono con risorse proprie, l’assenza della continuità dell’assistenza territoriale riguardante i malati cronici.

«Il cuore del problema – osserva Scaramuzza – è superare una visione della sanità regionale fondata sulla centralità assoluta dell’ospedale, a vantaggio di una medicina territoriale e flessibile, che coinvolga medici e infermieri». Ma per rendere effettiva una simile opportunità la strada da intraprendere non è quella dei tagli lineari, indiscriminati e penalizzanti per cui centinaia di migliaia di persone rimangono prive di un ospedale a una distanza ragionevole. La via da privilegiare prevede un rigoroso risparmio sulla spesa farmaceutica, fino a oggi mai realizzato dai governi nazionali, nonché controlli a tappeto sulle strutture sanitarie private accreditate per verificare se, ad esempio, nel reparto di cardiologia è presente 24 ore su 24 un cardiologo. E comporta la creazione di una rete territoriale di medici di base a disposizione tutti i giorni della settimana, per evitare che una persona con 39 di febbre si faccia portare al pronto soccorso quando basterebbe una visita del proprio dottore di fiducia.

Le problematiche e le prospettive di intervento emerse nel corso del dibattito infuocato sull’applicazione dei principi della spending review in campo medico si ritrovano, sia pur indirettamente e in una veste scientifica, nel Rapporto 2011 sull’attività ospedaliera del Lazio elaborato dall’Agenzia di sanità pubblica della Regione. È sufficiente leggere con attenzione la diagnosi delineata nelle sue pagine per disporre di un panorama esaustivo del servizio salute di una delle più importanti realtà territoriali d’Italia. Tenendo presenti, come punto di riferimento costante per le valutazioni qualitative, gli standard stabiliti dalla normativa nazionale. Parametri che fissano al 3,7 ogni mille abitanti, fra ricoveri, riabilitazione e degenza lunga, il numero congruo di posti letto. E nel 160 per mille il tasso di ospedalizzazione corretto, di cui almeno il 25 per cento in regime di Day Hospital.

Tempi di attesa in ospedale
Un paziente classificato all’ingresso in pronto soccorso come codice verde, in condizioni senza dubbio non preoccupanti ma meritevoli di assistenza un in arco di tempo ragionevole, aspetta più di un’ora prima di essere visitato. Attesa che si riduce a circa mezz’ora per un codice giallo, livello di gravità medio-alto, e tocca le oltre due ore per uno bianco, la soglia più bassa in termini di emergenza. Ma la durata dell’attesa si allarga facilmente in relazione alla complessità della struttura sanitaria.
Condizioni di attesa. Ogni giorno nei pronto soccorso del Lazio restano in barella aspettando il ricovero tra i 200 e i 400 malati. Il tasso record raggiunto nel 2012 in un ospedale romano è di ben 81 pazienti in barella. Ne deriva un’inevitabile pressione e tensione per lo stesso personale operante nei nosocomi, impegnato a fronteggiare nello stesso tempo le emergenze e l’assistenza a persone che dovrebbero trovarsi nei reparti. Si tratta di fenomeno che richiama un’evidente contraddizione e lacuna presente nelle strategie promosse dalle amministrazioni regionali e commissariali della salute laziale. Perché sono stati tagliati in via prioritaria i posti letto senza avere costruito nel frattempo i solidi presidi sul territorio previsti dal Piano sanitario regionale approvato dalla Pisana per gli anni 2010-2012?

Strutture e posti letto
La rete ospedaliera laziale nel 2011 conta 118 strutture dedicate all’assistenza per ricoveri e 171 poliambulatori pubblici attivi. Le strutture pubbliche sono 44, compresi 2 policlinici universitari, quelle private 74, per 21.983 posti letto complessivi, di cui il 55 per cento nella sanità pubblica. Ma il 53 per cento delle strutture ospedaliere presenta una dimensione eccessiva per fornire un servizio efficiente. Riguardo poi ai 47 centri regionali dotati di reparti di riabilitazione post-operatoria, è opportuno ricordare la loro distribuzione disomogenea, essendo concentrati nella Capitale e nella provincia romana. Nella regione Lazio, infine, si registra un tasso di occupazione medio dei posti letto in regime ordinario pari al 79 per cento, una percentuale di dimissioni volontarie del 2,7 per cento, una quota di ricoveri ripetuti a 30 giorni del 3,3 per cento.

Personale medico
I medici generalisti presenti e attivi nel territorio regionale sono 4.765; 778 i pediatri di libera scelta per le famiglie.

Degenza media
Nel Lazio la degenza media si è mantenuta sempre al di sopra dello standard nazionale di circa il 10 per cento. Considerando i 667.739 ricoveri ordinari del 2010, la differenza media della degenza riscontrata tra Lazio e Italia si traduce in un surplus di circa 470mila giornate di permanenza nelle strutture mediche e in un utilizzo di circa 1.300 posti letto in più. Il trend di durata di degenza presenta però una marcata riduzione dal 1997 al 2002. Un dato dovuto all’aumento dell’efficienza delle strutture di ricovero, che tendono a ridurne la durata per assestarsi a 6,7 giorni, 7,4 per i regimi ordinari e 3 per i day hospital, rispetto a una media nazionale di 7,1 giorni. L’assestamento può in parte essere spiegato dal trasferimento di ricoveri di breve durata dal regime ordinario a quello di day hospital, che rappresentano attualmente il 30 per cento dei ricoveri mentre nel 2000 costituivano solo il 10,6 per cento.

Tasso di ospedalizzazione
Nel Lazio il 2011 mette in evidenza un calo del 7,2 per cento rispetto al 2010 del tasso di ospedalizzazione, che passa da 185,7 a 172,1 per mille residenti. Il livello di ospedalizzazione stimato per il 2012 è pari a 170,1 ricoveri per mille residenti. Permangono alcuni aspetti negativi in termini di efficienza organizzativa, che riguardano l’assistenza fornita in regime diurno e la degenza pre-operatoria, lunga 2 giorni e mezzo rispetto a una media nazionale di 1,9 giorni. Nel corso degli ultimi anni si è registrato un trend decrescente dei ricoveri d’urgenza, il 19 per cento in meno nel regime ordinario e il 34 in meno per i day hospital, e per la riabilitazione post-operatoria, una contrazione del 10 per cento in regime ordinario e del 35 per cento in dh. La maggior parte delle prestazioni sanitarie erogate risulta concentrata nelle aziende sanitarie locali della città di Roma, grazie alla presenza di grandi centri multi-funzionali come le aziende ospedaliere e i policlinici universitari. L’attività di ricovero d’urgenza viene svolta per il 59 per cento dal comparto pubblico, mentre i ricoveri in day hospital sono assicurati per il 57 per cento dal settore privato convenzionato.

Pronto soccorso e prestazioni di ambulatorio
Gli accessi in pronto soccorso nel 2011 si attestano mediamente a 2 milioni. Complessivamente aumentano nella fascia di età superiore ai 75 anni. Per le prestazioni ambulatoriali offerte negli ospedali si registra un aumento del 12 per cento rispetto al 2010, soprattutto a causa dell’incremento dei servizi forniti nei laboratori analisi e nei pacchetti di specialistica ambulatoriale, introdotti per trasferire sempre più prestazioni dall’ambito ospedaliero a quello territoriale e domiciliare.
Attività delle Asl e loro capacità di attrazione. Le aziende sanitarie locali operative nel Lazio producono circa il 51 per cento dell’intera attività di tutela e cura della salute nella regione Lazio. Generalmente i residenti del Comune di Roma incontrano la risposta alla propria domanda di ricovero all’interno di presidi, case di cura, istituti, strutture comprese nel bacino della Asl di appartenenza. Mentre presentano una bassa capacità attrattiva le strutture delle Asl delle altre province del Lazio. Per gli abitanti delle province si evidenzia una propensione maggiore verso le grandi strutture ospedaliere romane. Nel loro complesso, i centri attivi presso le aziende sanitarie locali presenti nel territorio laziale mostrano una scarsa capacità di richiamare i pazienti residenti fuori della regione.

Distribuzione dei farmaci 
I medicinali erogati nel solo ambito ospedaliero costituiscono circa il 68 per cento della spesa complessiva e il 43 per cento del flusso complessivo di farmaci nella regione.

Rete di assistenza medica specializzata presente sul territorio
Le strutture di assistenza domiciliare integrata presentano la disponibilità di 26.526 posti, ma devono prendersi cura di 45.688 pazienti. Gli hospice residenziali e a domicilio per i malati gravi o terminali assistono 5.303 persone. I presidi residenziali per pazienti non autosufficienti garantiscono le prestazioni mediche per 7.812 assistiti. Ma i posti hospice e di assistenza residenziale a persone non autosufficienti anche anziane sono 5.758 a fronte di un fabbisogno di 13.072 unità. Più incoraggianti le cifre relative all’assistenza residenziale a favore di persone con disabilità fisica, psichica e sensoriale. Sono infatti 4.949 i posti disponibili a fronte di un fabbisogno di 4.490 unità. E i progetti riabilitativi per disabilità hanno promosso l’attivazione di 45.845 iniziative. I Punti unici sociosanitari integrati di accesso oggi attivi sono 42. I consultori familiari sono 161. I Sert per l’assistenza dei pazienti tossicodipendenti ammontano in tutto a 47. Le strutture per la cura della salute mentale si attestano a 284.
Al fine di comprendere pienamente i riflessi e gli effetti sul pianeta salute del Lazio degli interventi di risanamento predisposti recentemente a livello nazionale e territoriale, è doveroso integrare i dati forniti dal Rapporto fin qui analizzato con una mappa della sanità nel Lazio risalente alla fase precedente l’attuazione dei tagli ai piccoli ospedali. Un servizio sanitario che comprende 12 aziende sanitarie locali articolate in diversi distretti e 6 aziende ospedaliere.

Il Piano regionale sanitario approvato dalla giunta guidata da Renata Polverini per gli anni 2010-2012 va a inserirsi proprio in tale cornice.

Sono stati per l’appunto simili tagli a decretare la chiusura (ancora in corso) di 21 strutture ospedaliere e riabilitative in tutta la regione, la conversione di 24 piccoli ospedali in ambulatori, la fine dell’attività di 11 pronti soccorso. Ma su 11 dipartimenti di emergenza ben 10, con l’unica eccezione capitolina rappresentata dal Cto della Garbatella, si trovano nel territorio delle cinque province laziali. L’elenco dei piccoli ospedali che hanno chiuso o sono destinati a chiudere è lungo e impietoso: Monterotondo, Palombara Sabina, Subiaco, Zagarolo, Anagni, Ceccano, Pontecorvo, Ceprano, Ferentino, Arpino, Isola Liri, Atina, Rocca Priora, Ariccia, Anzio, Sezze, Gaeta, Minturno, Bracciano, Acquapendente, Montefiascone, Ronciglione, Magliano Sabina e Amatrice. Molti sindaci dei centri coinvolti hanno presentato ricorso al Tribunale amministrativo regionale e la popolazione è scesa più volte in piazza, manifestando anche a Roma. Ma finora tutte le iniziative sono sfociate in un nulla di fatto. E sarà inevitabile che i nosocomi della Capitale verranno presi d’assalto dai pazienti provenienti dai Castelli come Marino, il cui ospedale a rischio chiusura cura 30mila pazienti ogni anno, o dai piccoli comuni del viterbese e del reatino, aggravando una situazione già al limite del collasso. Senza considerare le sofferenze e i sacrifici intollerabili che dovranno sopportare malati e familiari costretti a percorrere decine di chilometri di strada trafficata per raggiungere un centro medico molto lontano dal luogo di residenza o di lavoro. Per tentare di trovare una via d’uscita a uno scenario così inquietante, la governatrice uscente aveva pensato di creare cinque eliporti distribuiti nel territorio delle varie provincie laziali con una flotta di elicotteri dotati di tutte le attrezzature sanitarie. Peccato che fino ad oggi solo una pista sia stata attivata, nel viterbese. E che per far decollare l’elicottero occorrerebbe abbattere i tralicci dell’Enel.

Per la sanità del Lazio, e per alcuni dei poli più prestigiosi e all’avanguardia nella qualità delle prestazioni mediche e della ricerca scientifica, si prospetta dunque un inverno di fuoco. L’intero universo della salute, pubblica e privata, persino confessionale, sindacale e medico-infermieristica, si è impegnato in una vasta mobilitazione per ricordare agli artefici dei piani di rientro del deficit sanitario che dietro i numeri vi sono persone in carne e ossa titolari del diritto a essere curate, e lavoratori che non meritano di vedere svilita la loro opera. Seimila posti di lavoro sono a rischio solo nella Capitale, dai dipendenti dell’Idi che sono tuttora in attesa di ricevere gli stipendi da agosto a ottobre 2012, al personale del Gemelli, colpito da un taglio di risorse privo di fondamento logico. Analizzare le realtà più penalizzate a Roma e nella Regione dalle drastiche riduzioni dei trasferimenti finanziari può aiutare a capire appieno la dimensione della loro crisi e le probabili ricadute sul tessuto sociale in cui dispiegano la loro preziosa attività.

Altamente emblematica e quasi surreale è la vicenda del prestigioso polo medico-ospedaliero San Raffaele, la cui crisi affonda le sue radici nel mancato pagamento delle fatture dovute dalla Regione Lazio per prestazioni sanitarie fornite a partire dal 2010. Per salvaguardare una struttura capace di assistere malati di patologie gravissime e di realizzare progetti di ricerca di livello internazionale, le rappresentanze dei lavoratori avevano chiesto alla giunta regionale di pagare fatture sufficienti almeno per far fronte agli stipendi del personale. Ma davanti al rifiuto opposto dalla Pisana, l’azienda sanitaria si è vista costretta ad avviare le procedure di cessazione di tutte le attività svolte nel Lazio, chiudendo i centri di Cassino, Viterbo e Montecompatri in provincia di Roma. Un complesso di 13 strutture dove lavoravano oltre duemila dipendenti, in grado di offrire 273 prestazioni ospedaliere al giorno e ospitare 2.098 pazienti. L’atto di accusa rivolto ai vertici istituzionali del Lazio è inequivocabile: “A seguito di provvedimenti regionali sono stati tagliati 400 posti letto, abbattute del 25 per cento le tariffe, richiesto l’incremento di 300 unità lavorative. Da oltre 24 mesi il San Raffaele, che vanta nei confronti della Regione Lazio crediti per 250 milioni di euro, non riceve pagamenti. Da 6 mesi vanta acconti per ulteriori 250 milioni. E tutto ciò nonostante l’Agenzia di sanità pubblica abbia valutato a livelli di eccellenza le attività dell’azienda soprattutto in termini di miglioramento delle condizioni cliniche dei nostri pazienti”.

Sempre sul piano regionale, se pur in tutt’altra cornice, si presenta molto critica la situazione nel carcere di Rieti, per anni fiore all’occhiello del sistema penitenziario regionale. Durante le ore notturne l’assistenza medica ed infermieristica è preclusa agli oltre 300 detenuti e alle decine gli agenti di polizia penitenziaria, costretti a ricorrere alla guardia medica del capoluogo di provincia o al 118. All’indomani del passaggio delle competenze per la sanità penitenziaria dal ministero di giustizia al Servizio sanitario nazionale e quindi alle Asl, a Rieti è stato trasferito personale sufficiente alla copertura di un bacino di 150 detenuti, del tutto inadeguato ai livelli attuali. L’azienda sanitaria locale ha richiesto più volte alla Regione l’assunzione di figure professionali necessarie a garantire l’assistenza ai detenuti, tra cui sei dirigenti medici, uno psicologo, sette infermieri, due tecnici di radiologia e un assistente sociale. Ma i contenuti fissati dal Piano di rientro del debito sanitario accettato dall’amministrazione regionale hanno opposto una barriera insormontabile all’accoglimento delle domande.

Nella Capitale le ragioni del disagio più profondo si sono riscontrare in due ospedali storici. Al policlinico universitario Agostino Gemelli, sede medica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e luogo di indiscussa eccellenza scientifica sul piano mondiale, sono il direttore sanitario Maurizio Guizzardi e il direttore amministrativo Marco Elefanti a lanciare un richiamo all’emergenza per le prospettive di continuità nell’assistenza ai pazienti provenienti da tutta Italia. Le gravi difficoltà registrate dal Gemelli sono provocate dai tagli retroattivi del 7 per cento del budget finanziario pubblico a favore delle prestazioni mediche fornite dai centri privati accreditati presso il Servizio sanitario nazionale. Per il policlinico universitario cattolico le riduzioni previste da Bondi dopo l’entrata in vigore della legge sulla spending review si concretizzano nella cifra di 29 milioni di euro, equivalente al 30 per cento dei tagli a carico di tutte le strutture convenzionate del Lazio. Una somma enorme, che per 5 milioni andrà a incidere negativamente sulle funzioni per l’emergenza e per il pronto soccorso. L’intervento deciso dal governo regionale appare tanto più generalizzato, superficiale e nocivo per due ordini di ragioni. Innanzitutto perché il Gemelli ha da tempo promosso in piena autonomia un radicale percorso di risanamento economico, basato sulla riduzione di oltre 200 posti letto, nonché su un miglioramento delle performance e dell’efficienza attraverso la riorganizzazione complessiva dell’offerta assistenziale. E in secondo luogo per i crediti di oltre 800 milioni di euro che il policlinico universitario vanta tuttora nei confronti della Regione Lazio. È tutta qui la ragione del grido di allarme e di disperazione dei due direttori del Gemelli: «Ogni intervento legislativo che taglia in modo lineare le risorse disponibili per l’offerta sanitaria a favore dei cittadini di Roma, del Lazio e d’Italia, rischia di vanificare gli sforzi finora sostenuti per raggiungere l’equilibrio di bilancio entro i prossimi due anni e mantenere gli elevati standard assistenziali a beneficio di tutti i pazienti. E comprometterà preziose attività già programmate con la Regione come il potenziamento, con il raddoppio dei posti letto, del reparto di terapia intensiva per i neonati precoci, costato 5 milioni di euro. Stesso destino rischia di avere un importante progetto che coinvolge i malati di sclerosi laterale amiotrofica, poiché mancherebbero le risorse per pagare il personale già coinvolto». I vertici del Gemelli proseguono con pervicacia la propria campagna, annunciando l’intenzione di impugnare i decreti dell’ex Commissario contenenti i tagli e appellandosi alla Regione affinché non perseveri nella miope equiparazione del policlinico a qualsiasi altra struttura sanitaria privata accreditata del Lazio: «Se il Gemelli e il servizio pubblico offerto da decenni a livelli elevatissimi e a costi dignitosi non esistesse, sarebbe una grande perdita per un territorio i cui abitanti andrebbero a curarsi altrove o addirittura all’estero».

L’iniziativa di lotta e protesta che per mesi ha coinvolto i lavoratori dell’Istituto dermatologico dell’immacolata-San Carlo di Nancy, ospedale all’avanguardia nella ricerca e nella cura delle malattie della pelle, è scaturita invece dal fallimento di una governance caratterizzata da una gestione finanziaria dissennata. Sprechi illimitati, privilegi e retribuzioni abnormi a favore dei dirigenti, un meccanismo non controllato di gestione dei flussi di cassa degli ospedali, hanno portato al tracollo della proprietà e all’amministrazione controllata dei nosocomi da parte del Tribunale fallimentare. Che a partire dal mese di agosto 2012 ha bloccato gli stipendi dei 1.800 lavoratori dell’Idi-San Carlo. Per ottenere le risorse loro dovute i dipendenti hanno da allora promosso una mobilitazione a oltranza, che ha visto i suoi momenti più drammatici in un durissimo sciopero della fame sul tetto occupato dell’Istituto dermatologico e in un presidio permanente all’interno della chiesa del San Carlo. Lotte che sono riuscite a sollevare l’attenzione dell’opinione pubblica e delle principali autorità locali e nazionali, in primo luogo del Capo dello Stato Giorgio Napolitano che ha voluto far visita al personale impegnato nell’azione non violenta di digiuno. Finché, nei primi giorni di dicembre, l’allora commissario straordinario della sanità nel Lazio Enrico Bondi ha annunciato l’avvio della procedura di liquidazione degli stipendi di novembre e dicembre a favore dei lavoratori. È appena l’inizio del percorso di fuoriuscita da uno stallo soffocante, visto che per ora sono stati sbloccati 5 dei 30 milioni di euro complessivamente dovuti. Le mensilità precedenti, ad oggi nella disponibilità del giudice fallimentare, restano ancora da pagare. Così come è appena agli inizi la strada per ricostruire le prospettive occupazionali dei medici e degli infermieri attivi nei due ospedali.

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