Pizza ConnectionRiina, 20 anni dopo l’arresto, i tentacoli della mafia soffocano ancora l’Italia

Riina, 20 anni dopo l’arresto, i tentacoli della mafia soffocano ancora l’Italia

Via Bernini 54, Palermo, è il 13 gennaio del 1993 ed è partita l’“operazione Belva” del nucleo del Crimor. Obiettivo del Capitano Ultimo e dei suoi uomini Arciere, Vichingo, Pirata, Oscar, Omar, Barbaro e Ombra è quello di arrestare colui che viene considerato il “capo dei capi” di Cosa Nostra, Totò Riina.

Gli uomini di Ultimo per due giorni girano nei quartieri de l’Uditore, della Noce e di Passo di Rigano, con ‘la balena’, cioè il furgone schermato da cui si fanno riprese e si ascoltano le intercettazioni. Il 14 gennaio individuano il cancello da cui esce Ninetta Bagarella, la moglie di Totò Riina. Alle 8.55 del giorno successivo Giuseppe Coldesina, nome in codice Ombra, comunica via radio con Ultimo: «Attenzione, è uscito il nostro amico, il nostro amico Sbirulino, è uscito».

L’amico “Sbirulino” è in realtà Salvatore Biondino, autista di Totò Riina. A bordo della Citroën ZX con Sbirulino c’è proprio lui, “Totò ‘u curtu”, la “belva senza cuore” arrivata ai vertici di Cosa Nostra e latitante da 23 anni. A riconoscerlo è stato Balduccio Di Maggio ex autista di Riina, stipato con l’attrezzatura e il resto della squadra del Crimor nel retro del Ford Transit Blu che porta la scritta “Gambino Impianti”. É Di Maggio ad aver segnalato dalla stazione dei Carabinieri di Novara, dove è stato arrestato l’8 gennaio 1993 per un omicidio a Borgomanero, la probabile ubicazione del ‘covo’ (in realtà una villa con tanto di palme e non distante dal centro di Palermo). Quindici minuti e un chilometro più tardi da via Bernini a Palermo avviene l’arresto del capo dei capi il quale un’ora dopo si ritrova in caserma fotografato sotto la foto del generale Dalla Chiesa.

Di Maggio non è uno qualunque, è infatti quel pentito “eccellente” a fortune alterne che descrisse la scena del famigerato bacio di Riina a Giulio Andreotti. Basta una confidenza di Balduccio di Maggio in una caserma dei Carabinieri di Novara per stanare Riina? Ovviamente no. Si aggiungono così le indagini degli uomini del Ros guidati da Mario Mori e il contesto della famigerata “trattativa” tra Stato e mafia: Riina sarebbe la contropartita offerta da Provenzano per far cessare le stragi e contestualmente salvare Cosa Nostra dalla guerra con lo Stato intavolata dopo gli eccidi di Capaci, via d’Amelio, Roma, Firenze e Milano tra il 1992 e il 1993. Sarebbe stato il capo dei capi primo estensore del cosiddetto ‘papello’, cioè l’elenco delle richieste di Cosa Nostra allo Stato per mettere fine alle stragi in continente”. Senza poi dimenticare la dibattuta e complessa vicenda della mancata perquisizione del covo di Totò ‘u curtu che diede avvio a una sterminata letteratura giornalistica, ancora sulla cresta dell’onda questi giorni dopo la lettera del presunto ‘corvo’ che rivela alcuni retroscena, non poi così esclusivi, in una lettera spedita al pm di Palermo, Di Matteo.

Da Giuliano in poi sulle operazioni più importanti dell’antimafia siciliana non sono mai mancati sospetti e veleni, e la vicenda dell’arresto di Totò Riina, avvenuto il 15 gennaio di venti anni fa non ha fatto di certo eccezione. Anche perché a giovare più di tutti di quell’arresto è stato quel Bernardo Provenzano che è stato nei tredici anni successivi uomo di vertice di Cosa Nostra, cambiando radicalmente il volto dell’organizzazione criminale siciliana. Una Cosa Nostra che in questi venti anni non è stata di certo sconfitta, e chi lo sostiene, o lo fa per ignoranza o lo fa in completa malafede sminuendo un problema ancora forte e attuale soprattutto in Sicilia, nonostante qualche difficoltà ‘organizzativa’ in più rispetto al passato.

Da Riina a Provenzano cambiano le strategie: niente più stragi e profilo basso; appalti pubblici, imprese e la giusta dose di finanza. Non che questi elementi mancassero ai tempi di Totò ‘u curtu (che con la mediazione di Provenzano ha usufruito dei buoni uffici di Vito Ciancimino), ma a cambiare all’interno di Cosa Nostra è stato l’approccio a una guerra con lo Stato, l’utilizzo della politica e delle proprie imprese.

In vent’anni i “capi dei capi” che si sono alternati sono stati tre: Totò Riina e Bernardo Provenzano, arrestati e detenuti, mentre l’ultimo imprendibile risulta essere Matteo Messina Denaro, detto “Diabolik”, latitante dal 1993 e tra i quattro latitanti più ricercati al mondo.

Vent’anni, si diceva, in cui Cosa Nostra ha cambiato pelle, puntando inevitabilmente anche fuori dai confini della Sicilia proiettandosi “in continente” e sviluppando la cosiddetta “zona grigia” fatta di professionisti e politica. Scrive la Direzione investigativa antimafia in uno degli ultimi rapporti consegnati al Ministero dell’Interno «l’attitudine ad avvalersi di spregiudicate condotte collusive, anche al di fuori dei territori d’origine, è funzionale alle proiezioni in aree più ricche del Paese, dove gli imprenditori mafiosi mirano ad acquisire posizioni dominanti nel mercato, reimpiegando capitali illeciti e facendo ampio ricorso al supporto di una vasta area grigia». Dopo l’arresto di Riina infatti l’unico modo che Cosa Nostra (e chi se ne serve) ha per salvarsi, è inabissarsi e sviluppare rapporti duraturi col mondo politico ed economico, oltre all’appoggio di qualche ‘corvo’ nella giustizia che conta.

Localmente, scrive di nuovo la Dia, Cosa Nostra «prevede la diversificazione e la delocalizzazione delle risorse operative che assicuri il consolidamento economico-criminale lontano dai territori di elezione». Diversificazioni che sono il punto di forza della gestione economica di Cosa Nostra con la costante presenza di quell’humus di «borghesia mafiosa» che accredita imprese e imprenditori mafiosi nei salotti buoni locali e nazionali.

Su tutti sono interessanti due esempi emersi nell’ultimo decennio di indagini: per rimanere in tema con la cattura di Matteo Messina Denaro, il sequestro di beni intervenuto nei confronti di Carmelo Patti, patron della Valtur, ritenuto dalla Dia un prestanome dello stesso Messina Denaro. Un maxi-sequestro riguardante partecipazioni societarie in campo industriale e turistico intestati a Patti, a suoi familiari e ad altri soci, ma anche un alto numero di abitazioni in Italia e all’estero (Marocco, Costa d’Avorio, Tunisia) e una imbarcazione. Un sequestro da 5 miliardi di euro

Provvedimento preso dal tribunale di Trapani all’interno di una inchiesta denominata “Golem”, che lo scorso anno ha puntato a fare terra bruciata attorno a Messina Denaro e che è costata al cavaliere Carmelo Patti anche un avviso di garanzia per favoreggiamento nei confronti del boss. Lui che arriva dalla Sicilia negli Sessanta in Lombardia, a Robbio, un piccolo centro nel pavese, fonda una fabbrica di componenti elettronici che lavora per la Fiat e nel 1998 diventa patron della Valtur. Il figlio, Gianni, diverrà presidente della società calcistica locale, che sotto l’egida dei Patti si ritroverà dalle serie minori al campionato interregionale.

Il secondo esempio riguarda la grande torta dei mercati ortofrutticoli dove tra la piazza siciliana di Vittoria e quella laziale di Fondi, Cosa Nostra gioca un ruolo fondamentale e non sta di certo a guardare. Basti pensare che il mercato ortofrutticolo di Vittoria (Ragusa), produce un volume d’affari di circa 600 milioni di euro l’anno e vi lavorano oltre 500 operatori, 3000 produttori agricoli, e 68 commissionari ortofrutticoli e decine di aziende di autotrasporto. Un piatto ricco a due passi da casa per le cosche del ragusano.

La Cosa Nostra degli ultimi anni, secondo i dati in possesso della Direzione investigativa antimafia, sconta anch’essa i risvolti della crisi. Gli investigatori segnalano infatti carenza di liquidita e difficoltà nel far fronte alle spese correnti come quelle legali o di mantenimento dei consociati. Un fenomeno che porta l’organizzazione a una esposizione maggiore sui reati contro il patrimonio e addirittura un aumento della ricerca dei profitti in settori di basso profilo economico e criminale come le rapine. Difficoltà queste che vedono Cosa Nostra, attore principale del narcotraffico negli Settanta e Ottanta, cedere il primato a ‘ndrangheta e Camorra, a cui comunque i siciliani non disdegnano di appoggiarsi per gli affari internazionali della coca. Così come la mancanza di un vero coordinamento ha portato alla frammentazione interna di Cosa Nostra, con equilibri sempre più difficili da mantenere tra le varie famiglie che le espongono a continui cambi di leadership a causa dell’azione di magistratura e forze dell’ordine.

A mettere in difficoltà gli inquirenti e la società civile è però la continua rigenerazione dei tentacoli della ‘piovra’ mafiosa di Cosa Nostra, che ha trovato nuovi approdi, riferiscono gli investigatori dell’antimafia, «anche in campo internazionale cogliendo le possibilità offerte dalla possibilità di esportare capitali in Paesi europei ed extraeuropei».

Una mafia quella siciliana che spara meno, così come le maggiori organizzazioni criminali italiane fanno da tempo: basti pensare che ai tempi della ‘belva’ Riina le esecuzioni per mano mafiosa sono state 719, mentre nel 2011 sono state solo 69. Tuttavia il controllo sul territorio esercitato con pizzo, racket e intimidazioni è un controllo mafioso tutt’ora presente e pressante sulla quotidianità di commercianti, imprenditori e cittadini comuni anche nella Sicilia di oggi.

Sono stati vent’anni di legislazione antimafia a singhiozzo, perché su certi temi si interviene solo quando non si può più stare a guardare, e una spinta è arrivata immediatamente dopo le stragi del ’92-’93, con l’introduzione del carcere duro per i mafiosi e l’introduzione di strumenti preventivi di carattere patrimoniale, già caldeggiati in precedenza ma sempre guardati con diffidenza.

Anni in cui è cambiata anche l’antimafia con l’introduzione di alcuni importanti strumenti preventivi e patrimoniali e le normative sullo scioglimento dei comuni, ma ancora debole su alcuni aspetti più operativi (basti pensare alle notifiche ancora consegnate a mano, alla lentezza dei procedimenti penali e alle difficoltà che incontrano le procedure di sequestro, confisca e riutilizzo dei beni delle mafie). E un fatto è che in questi venti anni mafie e antimafie non hanno mai trovato grande spazio nelle agende politiche, e dove lo spazio c’è stato è stata quasi più questione di parte o di convenienza, salvo casi sporadici.

Un’antimafia che anche tra la società civile ha preso piede e che si concretizza non nell’essere eroi ma nelle buone pratiche quotidiane, ma ancora oggi come allora, è rimasta per tanti predicatori e qualche magistrato confuso dalla politica, uno strumento di carriera prezioso e di grande impatto mediatico.

Twitter: @lucarinaldi
 

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