Mai come nella campagna elettorale in corso il numero dei magistrati che hanno deciso di candidarsi è stato così limitato. E mai come nella competizione in vista del voto di fine febbraio il prestigio, lo spessore, la statura delle toghe presenti nelle liste messe a punto dai partiti sono destinati a lasciare un’impronta profonda. È innegabile come tutte le principali formazioni in lizza per conquistare la fiducia dell’opinione pubblica abbiano scelto di qualificare il loro profilo e credibilità puntando su una personalità di spicco a lungo attiva sui fronti più delicati delle indagini giudiziarie. Oltre a Piero Grasso che «ha trovato una casa ideale» nel Partito democratico, e ad Antonio Ingroia che della sinistra arancione di “Rivoluzione civile” animata dal suo ex collega Luigi De Magistris è addirittura il candidato premier, emergono con forza le figure di Stefano Dambruoso, negli ultimi dieci anni in prima linea nel fronteggiare e individuare i nuclei del terrorismo integralista internazionale operanti nel nostro paese e rappresentante della società civile mobilitata a sostegno di Mario Monti, e di Stefano Amore, per molto tempo impegnato nella Procura di Reggio Calabria nella repressione dei più gravi reati ambientali e contro la pubblica amministrazione, designato da Silvio Berlusconi per promuovere nel Mezzogiorno un’immagine autorevole e pulita del centro-destra a lungo associato agli scandali e al malaffare.
La proiezione elettorale di esponenti della giustizia ha provocato critiche e reazioni assai dure in chi vi scorge un rischioso inquinamento della sacralità e neutralità del lavoro dei giudici, in grado di gettare discredito e ombre inquietanti sulla validità e correttezza dell’esperienza in toga. Giudizi a cui il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, sostituto procuratore presso la Direzione distrettuale antimafia di Roma e rappresentante dell’accusa in processi importanti come quello sulla loggia P3 e nei confronti dei presunti ricattatori dell’ex governatore del Lazio Piero Marrazzo, ha risposto riconoscendo l’esistenza di un problema: «Bisogna evitare di dare l’impressione che l’attività politica del magistrato sia la prosecuzione con altri mezzi dell’attività giudiziaria, e impedire una sovrapposizione tra funzioni nettamente differenti». Una riflessione sviluppata e allargata con il nostro quotidiano, al quale il massimo rappresentante della magistratura associata spiega in quali forme è opportuno e auspicabile disciplinare la candidatura e l’eventuale rientro in ruolo dei giudici una volta terminata l’esperienza elettiva.
Ritiene deplorevole che prestigiosi magistrati a lungo impegnati su alcune tra le più scottanti e nevralgiche inchieste giudiziarie, ricche di un’alta valenza civile e storica, siano attualmente in corsa nelle fila di diversi gruppi politici?
Non lo reputo affatto deplorevole, né condannabile. Tra l’altro non trovo che si tratti di una peculiarità di oggi. Fin dagli albori della Repubblica numerosi e celebri giudici, a partire da Oscar Luigi Scalfaro, decisero di candidarsi alle elezioni. E la nostra Costituzione sancisce l’inviolabilità del diritto all’elettorato passivo per tutti i cittadini. Una simile scelta non determina automaticamente alcuna commistione o interferenza tra la funzione giudiziaria e il terreno politico. Il vero nodo da affrontare è evitare che continui passaggi e trasferimenti fra due ruoli così differenti, senza limitazioni e cautele adeguate, possano finire per ferire l’immagine di imparzialità, autonomia, credibilità del nostro ruolo. Al contrario dell’attività partitica e parlamentare, l’immagine oltre che la sostanza del lavoro del magistrato devono essere improntate sempre, soprattutto agli occhi dell’opinione pubblica, al parametro della più assoluta imparzialità. Nonostante entrambe rappresentino due forme diverse di altissimo impegno pubblico.
Quali misure potrebbero dunque stabilire una più limpida e netta separazione tra le due realtà e allontanare il semplice sospetto di parzialità di un giudice?
Mantenendo inalterato il testo e l’impianto della Carta fondamentale del 1948, possiamo immaginare limiti e norme che vadano nella giusta direzione. Innanzitutto il divieto di esercitare una diretta attività politico-elettorale nello stesso luogo in cui è stata svolta la funzione giudiziaria. Tanto più valido nel voto per le amministrazioni locali, che per tradizione e caratteristiche storiche implicano un rapporto più stretto tra il governante-rappresentante e la collettività. Lo stesso ragionamento deve essere applicato anche nella fase di rientro del giudice nell’ordine giudiziario al termine dell’esperienza parlamentare, prevedendo il suo trasferimento in un territorio distante da quello in cui si è concentrata l’elezione e l’attività legislativa. Poi si dovrebbe stabilire un arco di tempo congruo di decantazione e attesa fra i due momenti. In qualità di esponenti dell’Anm abbiamo espresso il nostro parere alla Commissione giustizia del Senato, impegnata durante la legislatura appena conclusa nell’esame di un disegno di legge relativo ai filtri da introdurre sull’ingresso dei magistrati nel terreno politico. Testo a cui peraltro ci siamo opposti poiché alle toghe che decidevano di rientrare nell’alveo giudiziario veniva riservata esclusivamente la facoltà di optare per un ruolo nel Consiglio di Stato o nell’Avvocatura di Stato. Ai nostri occhi un ingiustificato e illogico privilegio.
Il suo collega e segretario dell’Associazione nazionale magistrati Maurizio Carbone si spinge a ipotizzare l’irreversibilità della scelta politica per le toghe candidate al voto. Condivide tale impostazione?
Si tratta di un’indicazione che attiene soprattutto al terreno dell’opportunità e dell’inclinazione culturale del giudice. La reputo assai utile, anche se richiede una chiara riforma della Carta costituzionale all’articolo 51, terzo comma, che recita: “Chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro”.
Non teme che, sia pur in una forma inconscia e attraverso un riflesso automatico, le conoscenze maturate nel corso del lavoro investigativo e processuale possano essere utilizzate dal magistrato-candidato sul terreno della polemica elettorale?
Guardi, io vedo che nel passaggio tra le due funzioni ci si spoglia della vecchia pelle e se ne assume una nuova. Senza dubbio fa parte della correttezza e dell’etica professionale delle persone non finalizzare il frutto delle proprie attività giudiziarie per obiettivi politici. Ma ciò vale per tutte le categorie professionali, visto che per ogni individuo comportarsi diversamente provocherebbe discredito incancellabile sul proprio operato. Altro tema è invece la maturazione di una sensibilità e di una predisposizione e preparazione culturale su branche specifiche della giustizia, dai reati economici a quelli di mafia fino ai crimini di terrorismo.
Non trova paradossale che proprio una fase di indiscutibile protagonismo elettorale di autorevoli magistrati coincida con uno spaventoso silenzio da parte di quasi tutte le forze politiche sulle emergenze irrisolte del pianeta giustizia?
Senza dubbio è singolare che di quei temi si parli pochissimo. L’attenzione appare rivolta soprattutto sulle questioni di natura economica e sociale. Ma quasi tutti dimenticano che le problematiche legate all’efficienza della giustizia, alla ragionevolezza dei tempi processuali, alla lotta contro la corruzione e il riciclaggio, presentano enormi ricadute sul tessuto produttivo italiano e sulla possibilità di attrarre investimenti. Troppo a lungo il dibattito pubblico si è focalizzato sulle riforme dell’ordinamento e dell’assetto di governo della magistratura, sul rapporto tra procure e polizia giudiziaria, sui limiti da porre alle intercettazioni telefoniche e ambientali. È doveroso invece riportare al centro dell’agenda pubblica il funzionamento del servizio giustizia. A partire dall’adeguamento dei reati previsti dal nostro codice penale alle concrete esigenze del paese.
Siete disponibili a ragionare sull’adozione di un provvedimento di amnistia per risolvere alla radice la montagna di carichi giudiziari pendenti e le condizioni inumane delle carceri italiane?
Ritengo che l’emergenza carceri costituisca il primo nodo da affrontare nei cento giorni iniziali della prossima legislatura. Ma a coloro che invocano provvedimenti di clemenza per risolvere il sovraffollamento dei nostri istituti di pena ricordo che l’indulto approvato nel 2006 non ne ha rimosso le cause strutturali e si è limitato a rappresentare un mero palliativo. Per intervenire alla radice della malattia è necessario pensare all’introduzione di misure alternative alla prigione riguardo a una serie di reati per cui si rivelerebbero molto più efficaci pene interdittive o patrimoniali, nonché allo sviluppo della detenzione domiciliare. Un pacchetto di iniziative senza dubbio più rigorose e concrete rispetto agli slogan demagogici del costruire nuovi penitenziari o alla bandiera di rimedi solo provvisori per svuotare le carceri esistenti.