Panunzi, lei insegna economia in Bocconi. Partiamo da una domanda semplice… qual è la sua definizione di capitalismo?
Alla faccia della domanda facile! Il capitalismo, a mio parere, è un sistema economico la cui essenza è quella di sfruttare tutti gli incentivi nei confronti degli individui; incentivi a lavorare e a fondare nuove imprese, per esempio. È un sistema economico che lega la remunerazione a vari fattori come l’impegno e la disponibilità ad assumere rischi. Pur sapendo che non sempre c’è una correlazione diretta tra sforzo e risultato, dato che anche la sfortuna gioca un suo ruolo. Anche idee buone possono fallire, a volte. La mia definizione di capitalismo si contrappone dunque a quella di socialismo, un sistema che non prevedeva né incentivi né premi per chi si impegnava. Il sistema capitalistico si basa invece sul fatto che qualcuno può diventare ricco sulla base dell’impegno (ovviamente questa relazione non è uno a uno). Secondo me, l’essenza del capitalismo è un sistema economico dove gli incentivi giocano un ruolo importante. Il socialismo è fallito per la mancanza di questa parola: incentivi. E trovo sorprendente che la parola incentivi nei libri di testo di microeconomia (esclusi i testi più recenti) non compaia quasi mai.
Parliamo di microeconomia. Questa disciplina fa grande uso di “modelli” per spiegare la realtà. Ma cosa sono esattamente i modelli? E quanto sono attendibili?
La definizione più semplice di modello la ricaviamo ricorrendo a un semplice esempio: la carta geografica. Nella carta geografica togliamo le cose non essenziali. È riportata la strada da Bergamo a Milano, ma non c’è scritto se ci sono buche, alberi, eccetera. D’altronde, se fosse una scala 1:1 non la potremmo portare in macchina; sarebbe inutile. Ciò che ci serve è una rappresentazione semplificata della realtà. Ma l’economia è ben diversa dalla cartografia. Nelle carte geografiche è ovvio ciò che serve (curve e svincoli…) e ciò che non serve. In economia non è chiaro ciò che essenziale. Molto spesso dipende dal ricercatore: è il ricercatore che identifica le cose essenziali, ed è per questo che i modelli sono diversi dalle carte geografiche…
Un esempio è il dibattito tra i keynesiani e gli anti-keynesiani (oggi declinato nel dibattito tra Krugman e i suoi critici). Cercano entrambi di spiegare l’andamento dell’economia, però i primi si concentrano su certi aspetti, i secondi su altri.
In economia il modello è un arte, più che una scienza. La visione soggettiva del ricercatore diventa un elemento fondamentale. Per questi motivi non esiste un unico modello.
La microeconomia studia il comportamento dei singoli agenti economici (come i consumatori e i produttori) e più precisamente studia come questi agenti massimizzano la propria utilità. Ma è possibile una crescita (o massimizzazione) continua?
È vero che nella realtà gli agenti non fanno sempre acquisti su basi razionali, e spesso agiscono in modo impulsivo: vedono un oggetto e, senza pensarci troppo, lo comprano. Ma l’ipotesi che gli agenti massimizzino la propria utilità non è così priva di realismo come può sembrare a prima vista. Se una persona deve comprare un’auto, è ovvio che soppesi l’acquisto, valutandone costi e benefici. Quando le somme sono rilevanti, l’analisi che troviamo nei libri di testo non è poi così priva di realismo.
E per quanto riguarda la crescita (e la decrescita)?
Vorrei capire meglio: cos’è che deve decrescere? Ha senso, ad esempio, ridurre l’investimento nelle nuove tecnologie? È giusto, ad esempio, privare i nostri figli della possibilità di curare certe malattie? Secondo me in certe dimensioni la decrescita sarebbe un atto di un egoismo pazzesco, vorrebbe dire dare ai nostri figli di meno rispetto a ciò che abbiamo noi. Certo, la crescita deve essere legata alla produttività, cioè occorre utilizzare le risorse naturali in maniera efficiente, salvaguardandole anche per le generazioni che verranno. Il progresso tecnologico è fondamentale per usare le risorse in modo più efficiente. Abbiamo fatto dei grandi progressi nell’utilizzo delle risorse. Ad esempio, quando avevo 18 anni avevo una Fiat 124 che consumava e inquinava tantissimo. Rispetto ad allora le auto hanno raggiunto un’efficienza notevole. Ma la domanda fondamentale secondo me è: chi è che decide le dimensioni sulle quali dobbiamo decrescere? Chi è che decide che abbiamo troppo di un bene? Io su questo punto starei veramente attento… rischiamo di entrare in un terreno veramente pericoloso.
Fausto Panunzi (clicca qui per leggere la sua biografia)
Se l’economia è una scienza sociale, non è un limite che segua i metodi delle scienze dure (hard sciences) per rappresentare la realtà di “elementi “ umani e quindi non del tutto razionali?
La teoria economica si sta evolvendo. Un esempio è la crescente diffusione dell’economia comportamentale, in cui si studiano nuovi fenomeni quali l’imperfetto autocontrollo degli agenti che li porta a procrastinare alcune scelte, come quella di smettere di fumare o di perdere peso. L’economia si sta sviluppando, incorporando tutte queste cose.
Ma cos’’è che cambia una volta che arricchiamo i nostri modelli? Sostanzialmente è difficile pensare che la curva di domanda non sia inclinata negativamente e che la curva di offerta non sia positiva. La legge dei mercati, con domanda e offerta, in realtà è estremamente robusta. Non sono convinto che lo studio dell’economia comportamentale cambi drasticamente la teoria economica. In secondo luogo, parlando di dimensione “umana” dell’economia, una delle accuse che viene spesso mossa all’economia è di dare peso solo alla nozione di efficienza ignorando gli aspetti di equità nei suoi modelli. È un’accusa probabilmente fondata, ma la ragione è che il concetto di equità non è così ovvio. Facciamo un esempio semplicissimo: una persona ha tanto e l’altra poco. Questo è inaccettabile, a prima vista. Ma se il primo ha lavorato tanto e il secondo non ha fatto niente, questo è iniquo? In altre parole, se vogliamo parlare di equità, non possiamo limitarci solo a guardare le allocazioni finali. Bisogna guardare tutto il processo. Non sempre è facile capire ciò che è equo e ciò che non lo è.
D’accordo. Però le disuguaglianze stanno crescendo…
Sì, ma è importante capirne la ragione. Se le possibilità fossero le stesse per tutte le persone e alla fine qualcuno avesse di più rispetto agli altri sulla base del talento, dell’impegno e della fortuna, le disuguaglianze sarebbero meno inaccettabili. Se alcune persone hanno grandi idee, come Steve Jobs o Bill Gates, perché non possono essere premiate e diventare ricche? Sappiamo che oggi la tecnologia e il livello di istruzione giocano un ruolo fondamentale nello spiegare le disuguaglianze. Chi ha livelli di istruzione più bassi è svantaggiato. Quindi uno snodo decisivo è quello dell’accesso all’istruzione. Più in generale, l’assenza dell’uguaglianza di opportunità è il vero punto. Ad esempio, secondo me, per scuola e sanità un’offerta pubblica di buon livello è imprescindibile. Non è la disuguaglianza crescente a mettere oggi in discussione il sistema capitalistico, ma il modo in cui si è arrivati a tale disuguaglianza. Se non diamo le stesse possibilità e diritti a tutte le persone, allora non possiamo pretendere che il mercato abbia un elevato consenso popolare.
Secondo lei il sistema capitalistico è in crisi?
Non proprio. Cosa vediamo se usciamo dagli Usa (che comunque sono tornati a crescere) e dall’Europa? La Cina ha aumentato negli ultimi anni il Pil in maniera enorme. Stessa cosa per il Brasile, e per gran parte dell’Asia. Se siamo meno concentrati su noi stessi, noi occidentali, vediamo che in realtà nel resto del mondo il capitalismo funziona ancora bene. Certo, da noi è in corso una grossa crisi che ci impone di riflettere su certi aspetti, come la finanza, ma questo non è un alibi per tornare… a che cosa? Qual è l’alternativa? Io non ne ho viste di veramente convincenti.
Ma per quanto riguarda Usa e Ue?
Qualcuno sostiene che la crisi è stata creata dalle troppe regole, da un eccesso di regolamentazione. Io non credo a queste teorie. Più semplicemente, il sistema finanziario tende ad avere sviluppi difficili da prevedere e comprendere. Per certi versi ricorda la storia del doping e dell’antidoping. Il doping è sempre un passo avanti rispetto all’antidoping. E lo stesso vale per la finanza: la regolamentazione arriva sempre dopo che un problema è sorto. Questa crisi è sicuramente la più rilevante dagli anni Trenta. È una crisi dalla quale non siamo sicuri di come si uscirà, soprattutto in Europa. Il rischio che si arrivi a una frammentazione della zona euro non è ancora scongiurato. Soprattutto se la politica non saprà dare una risposta adeguata.
Cosa pensa delle misure di stimolo (liquidità) messe in atto da Fed e Bce?
Non c’erano molte altre possibilità. Se le banche non fossero state rifinanziate, tutto il sistema economico si sarebbe inceppato. Ciò che hanno fatto Fed e Bce andava fatto, anche se non sono scelte prive di rischio, perché i bilanci delle banche centrali si sono dilatati enormemente e non è facile capire le conseguenze di ciò. Ovviamente queste misure non sono sufficienti a risolvere la crisi. In primo luogo non è automatico che questi soldi dati alle banche arrivino alle imprese e alle famiglie. Inoltre, c’è anche il problema della domanda. Gli investimenti si sono ridotti perché le imprese non sanno più bene quale sarà la domanda del settore privato. Le famiglie non sanno bene quanto guadagneranno nei prossimi mesi e, soprattutto, molte famiglie hanno dei figli che devono ancora entrare nel mondo del lavoro. E con un tasso di disoccupazione giovanile intorno al 30% questa è una preoccupazione enorme. Questi fattori cambiano le prospettive di risparmio e consumo delle famiglie. Non sorprendentemente, la domanda è scarsa, le imprese non investono e l’attività economica langue.
Ultime due domande secche. La prima: l’ultimo libro che ha letto o che sta leggendo.
Ho Capitalismo popolare di Luigi Zingales nello zaino. E ho da poco finito di leggere Il falò delle vanità di Tom Wolfe.
La seconda: von Hayek o Keynes?
Tutti e due hanno detto cose molto fondamentali. La cosa più bella che mi ricordo nel mio percorso di studi economici è il corso di storia del pensiero economico. Capire l’evoluzione del pensiero mi ha arricchito e che mi ha fatto appassionare all’economia. Come dicevo prima, i modelli sono un’astrazione, non sono che visioni parziali. Studiare come persone interpretano la realtà è affascinante. Keynes, von Hayek, Schumpeter e tanti altri grandi dovrebbero essere un patrimonio comune. Per questo ritengo che sia un grave errore delle università italiane l’aver perso o parzialmente abbandonato lo studio della storia del pensiero economico. Tutte le volte che torniamo indietro per rileggere i grandi autori, ci arricchiamo tantissimo. Quindi, non saprei e non vorrei scegliere tra von Hayek o Keynes. Penso invece che sarebbe importante che tutti li conoscessero davvero. E a fondo.