Sfogliavo qualche giorno fa una ricerca sulla condizione femminile di Andrea Ichino, professore di economia con i piedi molto per terra che insegna all’Università di Bologna. La ricerca mette in parallelo le vite (professionali e personali) di uomini e donne, di mogli e di mariti, di padri e di madri, per tracciare un profilo esaustivo in merito alla disponibilità dei medesimi a farsi più o meno carico, allo stesso tempo, delle incombenze lavorative e di quelle familiari. In buona sostanza, chi si smazza le faccende domestiche (educazione dei figli compresa) oltre che lavorare tutta la santa giornata. Le figure prese in esame sono sostanzialmente due: donne/uomini con lavoro più consueto e di conseguenza più diffuso e donne/uomini con lavoro più strettamente manageriale.
Ho sfogliato con attenzione questa ricerca per verificare se mi sarei rafforzato nella convinzione che mi è cara da sempre e cioè la superiorità morale delle donne sugli uomini. Sulla loro profondità, sulla capacità di cedere porzioni di territorio e metterle al servizio di un disegno più ampio, come potrebbe essere quello, tutt’affatto banale, della costruzione e del mantenimento di un condizione familiare di una certa dignità.
Al di là di proporzioni naturalmente diverse (ore lavorate, impegno e disponibilità familiare), la questione centrale non cambia, sia che si parli di donne manager sia che si esaminino le condizioni femminili più “normali”, professionalmente parlando. Le donne non vogliono più vivere come una condizione salvifica quel destino segnato per cui essere le sacrificate della società a cui tocca lavorare, badare ai figli, al marito, alla casa, eccetera. È un cono d’ombra, in cui sono state costrette dai maschi, a cui ormai si ribellano consapevolmente. Per giungere in un territorio nuovo, altrettanto consapevole. Quello in cui, potendo scegliere, scelgono comunque di battersi su più fronti, quello professionale e quello più familiare, distribuendo le forze che hanno e con l’idea, questa sì rivoluzionaria per i maschi, che si possono fare anche più cose in maniera “alta” a patto che la società ne riconosca davvero l’ineludibile esigenza.
Un dato, tra i tanti, è lì a testimoniarlo: l’uomo – racconta la ricerca – non ci penserà neppure per un momento a sacrificare se stesso, lavorando meno e dunque guadagnando meno, se all’orizzonte dovesse comparire una vera esigenza familiare. Considera, quella, una stupida bagattella di cui, naturalmente, lasciare tutta l’incombenza alle donne. Alle quali sarà lasciato il dilemma di una soluzione, che magari – ma guarda tu il caso – le porterà momentaneamente a “sospendere” o ad attenuare un certo carico di lavoro per guardare con più attenzione a quel problema familiare.
Vogliamo ancora discutere su chi è moralmente superiore? Non pago della ricerca del professor Ichino, oggi mi sono inferto un’ulteriore punizione. Un titolino nascosto all’interno di Affari e Finanza, supplemento economico di Repubblica, ha scatenato la mia curiosità: «Hedge fund, le donne battono gli uomini». Scrive scandalosamente Sara Bennewitz: «Dall’economia domestica agli hedge fund, le donne sono più brave a gestire i soldi degli uomini. Lo dimostrano i risultati raccolti da Rothstein Kass, società Usa di consulenza nel settore del risparmio, dove le donne hanno battuto il mercato tre a uno».
Impossibile, mi sono detto. È una vita che pompatissimi maschi in gessato blu ci scassano gli zebedei con le loro attitudini prestazionali e adesso arriva la ricerchina americana che manda tutto in vacca e abbatte il moloch di tutti i «machismi». Ma allora, quei giovinastri impeccabilmente eguali che gestiscono patrimoni e che ogni mattina vedo sfrecciare senza l’ombra di un dubbio, che caspita fanno tutto il santo giorno, di che cianciano, se poi le ragazze – zitte zitte – gli danno la paga? Ragazzi, se qui ci casca anche il risparmio gestito, se esce da quel recinto protetto che è poi la superboria maschilizzata, allora finisce un mondo. E magari ne ricomincia un altro, a tacco 12 o con le ballerine poco importa.
Ma continuiamo l’illuminante lettura: «Secondo il rapporto – scrive Affari e Finanza – nel 2012 i fondi speculativi hanno registrato una performance media dell’8,95%, mentre tutto il comparto hedge lo scorso anno ha guadagnato il 2,69 per cento. Sempre più stupefatto, mi inoltro nella possibile spiegazione: «C’è chi sostiene che le donne hanno una predisposizione naturale nell’amministrare le risorse, perchè sono meno propense a correre dei rischi. Insomma, essere più oculati nell’investire, limita le chance di perdita ed è una buona norma per affrontare tempi di crisi e alta volatilità. Non a caso, la performance dei fondi al femminile ha battuto quella del comparto hedge per tutto il periodo 2007-2012, vale a dire dal picco dei mercati a ora».
Ma cosa mi dite mai (cit. Topo Gigio). Qui casca tutta la casa, peraltro di cartone. Volete forse raccontarci, cari analisti di Rothstein Kass, che i signori maschi sono predisposti naturalmente alla faciloneria, a non considerare il cliente che porta i suoi denari come soggetto sacro e primario da proteggere (da far guadagnare sarebbe troppo)? E allora qui siamo (saremmo) davvero allo scandalo della verità.
Per rassicurarvi, cari maschietti, per cercare di riportare le questioni al loro alveo naturale, per rimettere al loro posto quelle presuntuosette delle femmine, c’è, di tutta questa impietosa rappresentazione, anche una spiegazione più banale e scontata, che probabilmente riuscirà stanotte a farvi dormire. «Altri fanno notare invece – conclude Sara Bennewitz su AF – che i gestori donna sono più bravi perché in generale le femmine amministrano portafogli medio piccoli e quindi più facili da gestire. Resta che, nonostante gli ottimi risultati raggiunti, mentre abbondano i money manager in cravatta, scarseggiano quelle in gonnella perché anche questo comparto resta un feudo del capitalismo al maschile». Per quanto ancora, cari maschietti?