Ti svegli mentre ti operano? Forse non ti hanno “spento” la coscienza

Ti svegli mentre ti operano? Forse non ti hanno “spento” la coscienza

«Immagina di essere completamente paralizzata. Sei in sala operatoria e non puoi far sapere a nessuno che in realtà ci sei. Che sei cosciente. Perché sei incapace di muovere i muscoli e comunicare. Tutti, infermieri, chirurghi, personale medico, pensano che non sei lì. Hai un tubo in gola che pompa aria per ventilarti, perché non riesci nemmeno a respirare avendo i muscoli paralizzati. E senti tutti i rumori. Gli odori. La pressione della lama del bisturi sui tessuti. Le palpebre sono abbassate, nessuno si accorge della tua presenza e vorresti avvisarli, gridare di fermarsi. Ma non puoi». Così Marcello Massimini, neurofisiologo del Dipartimento di Scienze Cliniche “Luigi Sacco” dell’Università degli Studi di Milano, descrive cosa succede a quel paziente su mille, in cui l’anestesia non funziona. «Perché la dose è troppo bassa, perché il soggetto ha un’idiosincrasia o perché metabolizza il farmaco più velocemente o per altre mille motivi». Si chiama risveglio intraospedaliero, e benché sia raro, può succedere.

Il problema è che quando si effettua un’operazione chirurgica oltre all’anestetico che “spegne” la coscienza, si deve somministrare anche una sostanza che paralizzi i muscoli, per prevenire contrazioni e riflessi durante l’intervento. Ma se l’anestetico non funziona e il paziente si risveglia, non può in alcun modo comunicarlo, perché è paralizzato. L’anestesista prima di somministrare il miorilassante verifica se il paziente è cosciente – con una domanda o chiedendogli di muovere il piede o stringere la mano – «Ma questo sistema non è ottimale perché la coscienza non dipende dalla comunicazione con l’esterno, dal fatto che possiamo rispondere a una domanda o muovere i nostri muscoli», spiega Massimini. «La coscienza dipende dalla comunicazione che si instaura all’interno del cervello e può ricomparire ma essere completamente chiusa dentro».

«È un’esperienza angosciante» spiega Massimini a Linkiesta «quando poi si aggiunge la componente del dolore, atroce. Per fortuna il secondo caso capita di rado, perché molti anestetici, anche quando non riescono ad abolire la coscienza, hanno un potente effetto analgesico». I pazienti che la vivono possono avere dei ricordi vaghi, dei flash o nel peggiore dei casi (circa il 70%) avere disturbi psicologici a lungo termine – come ansia, incubi, incapacità di dormire distesi, senso di morte e ritorno alla vita – tra cui anche il disordine post traumatico da stress (o Ptsd), tipico dei soldati che hanno combattuto in guerra. Alcuni di loro, poi, ricordano l’esperienza del risveglio e la collegano ai disturbi psicologici, mentre altri la rimuovono completamente e possono passare anche anni prima di individuare il problema.

Il 16 ottobre 1846 William Thomas Green Morton, un dentista americano, utilizzò per la prima volta l’etere come anestetico, presso la Harvard Medical School, su di un paziente a cui venne asportato un tumore dal collo. Quando il paziente si svegliò disse che non solo non aveva provato dolore, ma non ricordava niente. L’etere, infatti, a differenza di oppiacei e alcol, non si limita a eliminare il dolore ma rimuove l’esperienza e la memoria. Da quel giorno a oggi l’anestesia, (da anaisthēsia, parola greca che significa “mancanza di sensibilità”) ha avuto un enorme e indiscutibile successo, tanto che nel 2007 risultò fra i tre più significati sviluppi medici dal 1840, secondo un sondaggio del British Medical Journal. Eppure nonostante questo, ancora oggi non si sa come funzioni.

Propofol, ketamina, flurani, sono solo alcuni degli anestetici più recenti e usati. Ma come riescano a disattivare la nostra coscienza e poi farla riaffiorare quando il loro effetto svanisce, non è cosa nota. «Si sa che ci sono delle molecole che quando vengono inalate o iniettate aboliscono la coscienza o sembrano abolirla. Ma il meccanismo non è chiaro, perché non si sa da cosa dipenda la coscienza» spiega Massimini. È un enigma cha da sempre ha affascinato scienziati e filosofi, e che, secondo molti, non sarà mai risolto. Ciò non toglie sia necessario cercare di misurare la coscienza nel modo più preciso possibile. «Prima che una questione scientifica. È una questione etica» afferma Massimini.

Oggi la coscienza viene misurata in maniera superficiale. Non basta valutare la comunicazione di un soggetto con l’esterno, perché la coscienza può esserci nel cervello, anche in assenza di qualsiasi comunicazione. «Un esempio classico è il sogno» racconta il neurofisiologo «non rispondiamo a domande e stimoli esterni, siamo virtualmente paralizzati per meccanismi fisiologici, eppure siamo coscienti. Il sogno è un esperienza, bella o brutta ma pur sempre cosciente».

Per risolvere questo problema, da alcuni anni il team di Marcello Massimini sta sviluppando un metodo per misurare la coscienza nel modo più accurato e preciso possibile, combinando insieme stimolazione magnetica transcranica ed elettroencefalogramma . Questo approccio, potrebbe portare a risolvere il problema del risveglio intraoperatorio, e ridurre quel 40% di errore diagnostico che si commette quando si deve valutare se una persona è in stato vegetativo o presenta un livello minimo di coscienza. Inoltre, capire meglio i meccanismi della coscienza rappresenta l’unica via percorribile per sviluppare nuove strategie che favoriscano il recupero di questi pazienti.

«Siccome la coscienza non dipende dalla comunicazione esterna, ma da quella interna al cervello, ossia dalla capacità delle diverse aree della corteccia cerebrale di integrarsi fra loro e di scambiarsi informazioni, una cosa che si può fare è misurare direttamente questa capacità» spiega Massimini. «Con una sonda magnetica diamo un input e stimoliamo alcune zone della corteccia cerebrale. Poi misuriamo l’output con un elettroencefalogramma. Se il sistema comunica e il cervello è cosciente, la nostra perturbazione magnetica innesca una reazione a catena che si espande per tutto il cervello, e coinvolge diverse aree cerebrali. L’eco elettrico dei neuroni che registriamo in uscita in questo caso è complesso».

«In termini metaforici, bussiamo sul cervello con un impulso magnetico, invece che con la mano, e ascoltiamo l’eco elettrico di ritorno: se l’eco che registriamo è complesso, vuol dire che lì dentro c’è qualcuno. Se il traffico invece è limitato all’area stimolata, allora è molto verosimile che il soggetto sia, in quel momento, incosciente».

Sviluppare una misura affidabile richiede, in primo luogo, la definizione di una scala, con un livello minimo e massimo di riferimento. Per individuarne il valore più alto si misura la complessità dell’eco in una persona sveglia. Mentre per definire il limite inferiore, condizione in cui la coscienza è abolita, si prende come riferimento il sonno profondo, o l’anestesia. «Si può fare una dose di anestetico massiccia, in modo che non ci sia il risveglio intraoperatorio (non paralizziamo il paziente perché è un protocollo sperimentale, non dobbiamo operarlo sul serio e non c’è bisogno che i muscoli siano paralizzati) e se il paziente si sveglia ce lo fa sapere, quindi siamo sicuri che è incosciente. In questo modo, si tara la misura su la condizione assenza di coscienza» spiega Massimini.

«A questo punto, se in un soggetto che pensi sia completamente anestetizzato rilevi un valore di complessità che sulla scala è nel range della veglia, allora sai che c’è qualcosa che non va. Devi assumere che il soggetto è cosciente, anche se è paralizzato e non ti dice niente. Lo stesso principio si applica ai pazienti con gravi lesioni cerebrali. Se un paziente mostra un eco molto complesso devi assumere che sia cosciente anche se nulla te lo dice dall’esterno».

Il prossimo passo sarà tarare la scala e raffinare lo strumento, per poter vedere la coscienza anche là dove non sembra che ci sia, e rendere lo strumento il più sensibile possibile. In questo modo potrebbero essere notati anche piccoli aumenti della complessità cerebrale e livelli intermedi di coscienza che altrimenti non sarebbero visibili. Il che è importante soprattutto per i pazienti che hanno una lesione cerebrale.

«Lo strumento non verrà mai usato per dire che un soggetto non è cosciente, perché lì ci vuole prudenza. Se non si vede nulla non si può affermare che il soggetto non sia cosciente o escludere la presenza di coscienza. Di un rozzo cannocchiale ti fidi soltanto quando vedi qualcosa. Ma se vedi qualcosa, allora devi dire che c’è».
 

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