Tra gentiluomini un affare si chiude con una stretta di mano. Però se un gentiluomo viene da Shanghai e l’altro da Treviso, c’è bisogno di un contesto per farli incontrare. Una funzione che, dalle grandi esposizioni universali di fine ‘800 a oggi, è storicamente svolta dalle fiere.
Qualcuno calcola che le fiere organizzate lungo la Penisola generino il 15% dell’export nazionale: un settore che oggi occupa 2000 addetti e genera un fatturato complessivo pari a un miliardo di euro. Numeri che, considerando l’indotto, salgono a 6mila dipendenti e 3 miliardi di euro di ricavi. I grandi appuntamenti però, si contano sulle dita di una mano: Salone del Mobile, Cibus, Vinitaly e pochi altri. Secondo l’Ufi, l’associazione mondiale di categoria, l’Italia si è piazzata al quarto posto nel mondo, dietro a Usa, Cina e Germania, per spazi affittati nel 2011, con 6,2 milioni di metri quadri (in calo del 5% rispetto al 2010).
Fonte: Ufi Eurofair statistics 2011
Può contare inoltre su due quartieri – Milano e Bologna, rispettivamente al terzo e al 13mo posto al mondo – con una superficie che supera i 200mila metri quadri. Nella classifica di Auma, associazione tedesca di categoria, Milano è al quarto posto in Europa nel novero delle società di gestione fieristica, con un fatturato di 278 milioni di euro, mentre Bologna si piazza penultima al 27mo posto con 125 milioni. Il podio è occupato rispettivamente dalle inglesi Reed e Ubm, rispettivamente al primo e al terzo posto, e dalla francese Gl Events – azionista nelle fiere di Padova, Rimini, Torino e Bologna – al secondo posto. Nessuno dei tre possiede un quartiere.
Il 2012 non è stata una grande annata. Secondo le stime preliminari Cermes – Osservatorio Fiere dell’Università Bocconi, «le 75 manifestazioni annuali confrontabili, rappresentative del 40% del mercato italiano complessivo del 2011 (di livello internazionale in termini di aree locate), mostrano nel 2012 una nuova riduzione delle superfici affittate (-5,4%), in linea con la perdita registrata nel 2011 (-6%)». Una contrazione che deriva più «dalla riduzione dei budget che di un cambio delle strategie promozionali delle aziende espositrici». Sul fronte dei visitatori, invece, «si assiste a una nuova riduzione delle visite totali rispetto al 2011 (20 milioni di persone, -3,7%), legate soprattutto agli operatori nazionali, in quanto gli esteri rimangono sostanzialmente stabili (-0,6%)». Il motivo, dicono gli esperti della Bocconi, sta nella maggiore selezione delle manifestazioni a cui partecipare. Unica nota positiva l’aumento degli espositori diretti esteri, che crescono del 3,4% sul 2011.
Fonte: Cermes Bocconi
In un momento in cui le imprese espositrici riducono i budget a disposizione causa crisi – l’indagine Global Barometer dell’Ufi di gennaio, condotta su 213 imprese in 56 Paesi, evidenzia come soltanto un’esigua minoranza delle società europee ritenga che la crisi sia finita – la promozione del brand Italia nel mondo è azzoppata da mancanza di coordinamento, insensate guerre di campanile e incapacità di spingere gli interessi della categoria a Roma affinché i bei discorsi sul “fare sistema” si traducano in scelte concrete di politica industriale. Ad aggravare la situazione la riforma dell’art. V della Costituzione, che ha reso le fiere materia di legislazione concorrente, moltiplicando gli eventi e affidando alla politica il potere di decidere dall’alto, per smistare poltrone – l’azionariato “tipo” è solitamente composto da Regione, Provincia, Comune e Camera di commercio – e decidere progetti dall’alto e senza un’analisi preliminare della domanda e della potenziale attrattività di un quartiere o una manifestazione fieristica.
Fonte: Ufi Global Barometer gennaio 2013
E invece ognuno guarda al suo ombelico, replicando eventi fotocopia a distanza ravvicinata quando il resto del mondo punta ad espandersi all’estero, adottando quella che gli addetti ai lavori definiscono “piattaforma globale”: un modello che, per intercettare gli espositori internazionali, si sposta nel mondo in base alla domanda. Gli stracci volati di recente tra Padova e Verona sono un esempio di quanta strada sia ancora da fare: dal 15 al 17 settembre nella città scaligera è andata in scena Eica, manifestazione dedicata al ciclo. Il weekend successivo è stata la volta di Expobici, a Padova. «Capisco il libero mercato, tuttavia non è “drogando” l’offerta (sapendo che poi tocca agli enti pubblici chiudere i conti del bilancio) che si può far molta strada. Sarebbe utile che gli operatori delle due Fiere, almeno, si vedessero intorno allo stesso tavolo» ha spiegato di recente il vicesindaco Ivo Rossi al Mattino di Padova. Per non parlare della rivalità storica tra il Cibus di Parma e Tuttofood di Milano, conclusasi con un accordo, siglato nel 2009, per definire le rispettive specializzazioni: dedicata all’agroalimentare la prima, alla ristorazione la seconda. Con estrema fatica, a settembre 2011, è stato poi firmato un armistizio tra Rimini e Bologna, che prevede la creazione di una società unica di gestione per Rimini, Cesena e Forlì.
«Con la riforma dell’art. V in materia di promozione delle imprese all’estero è nata una situazione farsesca che neanche un leghista ormai avrebbe il coraggio di difendere. In Italia ci sono 63 quartieri fieristici, ma i primi 5 (Milano, Verona, Parma, Bologna, Vicenza, ndr) producono più del 70% del faturato e hanno un ruolo internazionale. Se tutti gli altri non esistessero, per la promozione dell’Italia all’estero cambiarebbe poco», sottolinea senza mezzi termini Paolo Lombardi, ex presidente della Fiera di Genova oggi consulente.
«Il mercato italiano è sicuramente un’eccezione rispetto al panorama internazionale», ammette Ettore Riello, presidente Aefi (l’associazione di categoria) e Veronafiere, «dove ogni singolo mercato è presidiato da pochi attori importanti, mentre noi abbiamo molte realtà di diverse dimensioni. Certo questo, specie in momenti di crisi come quello che viviamo ormai da alcuni anni, può essere difficilmente sostenibile ma d’altro canto, come sempre, può rappresentare un valore».
La difesa del particulare, d’altronde, ha una sua precisa logica: secondo una stima condivisa tra gli operatori, per ogni euro di fatturato una fiera ne genera mediamente dieci sul territorio. Se si tratta di fiere business to consumer, cioè aperte al pubblico, per ogni euro di ricavi al territorio ne arrivano 4, mentre per quelle business to business, per addetti ai lavori, si arriva anche a 12 euro per ogni euro di fatturato. Mediamente, poi, l’affitto degli spazi è pari al 10-15% del costo totale di una manifestazione. Logistica, catering, allestimenti, alberghi: tutti servizi di supporto svolti da imprese locali, tutti voti per l’amministratore di turno.
La politica locale può contare inoltre su un altro vantaggio competitivo: se una manifestazione non va bene – in termini di spazi affittati e di visitatori – lo si vede subito, ma le ricadute negative si manifestano sul territorio soltanto dopo due o tre edizioni flop. «La camera di commercio deve promuovere l’attività economica della provincia, e preferisce tenere in piedi una fiera che non ha ragione d’esistere, perché spera di riempire camere degli alberghi: abbiamo modelli fieristici che, come diffusione, sono legati all’800. In Lombardia ce ne sono 14, uno ogni 40 km», dice Lombardi. «In Italia abbiamo sempre avuto eventi frammentati, ma perché abbiamo anche una struttura della produzione frammentata. Di buono c’è che con la crisi questo sistema, che non si è mai mosso in cinquant’anni, negli ultimi 2-3 anni si sta ristrutturando. In Europa non ci saranno più fiere internazionali per ogni settore, ma una sola, perché le piattaforme fieristiche nel mondo si sono moltiplicate, e ormai l’Europa è solo una delle location intercontinentali», spiega Francesca Golfetto, ordinario di Marketing alla Bocconi di Milano.
Le fa eco Riello: «Probabilmente andremo incontro ad un processo di aggregazione, ma questo può avvenire solo con il concerto e il coordinamento del Governo con le istituzioni locali, che in molti caso sono anche azionisti delle fiere. Tuttavia, ribadisco il grande valore delle realtà più piccole per il sistema fieristico, specie se pensiamo alle manifestazioni di carattere domestico, tanto che in AEFi abbiamo dato vita a un progetto che si chiama Fiere in Rete volto a valorizzarne gli asset, in un’ottica innovativa legata al concetto di “fiera diffusa”. Questo è un esempio di come intervenire: innovazione nei format e capacità di pensare in modo trasversale. Le grandi certamente hanno una valenza altamente strategica come leva per l’internazionalizzazione».
Il settore non è semplice, e ogni fiera fa storia a sé. Una storia che spesso cambia di passo nella misura in cui l’ente è proprietario o meno del quartiere. Come a Rimini – dove il Comune ha conferito terreni all’ente fiera a mò di ricapitalizzazione, oppure Milano, dove la Fondazione, che controlla la società operativa ed è proprietaria del quartiere di Rho, ha venduto alcuni terreni a Comune e Regione (azionisti di Arexpo). O ancora Parma, che sta ancora pagando gli ammortamenti con il Comune per i terreni acquistati in passato. «Attualmente in Italia le fiere sono attività privatizzate, mentre i quartieri sono di proprietà pubblica o parapubblica», spiega Golfetto, che nota: «I quartieri difficilmente vanno in pareggio. L’obiettivo, grazie all’attività di marketing territoriale, è remunerare gli ammortamenti, mentre gli eventi sono tutti commerciali, e dovrebbero produrre utili». Dovrebbero. «Oggi si guadagna sugli eventi, non gestendo il quartiere. La tendenza è creare una società padrona degli immobili e un’altra, leggera, con competenze di marketing, dedicata agli eventi. Peccato che i tedeschi abbiano fatto questo ragionamento vent’anni fa, e ora sono i padroni del mercato i Cina, India e Russia, noi italiani siamo arrivati tardi perché, essendo il secondo paese manifatturiero d’Europa, abbiamo preferito costruire per attrarre la gente da noi», riflette Lombardi.
Un ritardo perfettamente visibile nei conti: si galleggia, ma con fatica. Veronafiere ha chiuso il 2011 con ricavi per euro 84,7 milioni (rispetto ai 82,9 milioni del 2010) e un utile pari a 1,5 milioni – in linea con le previsioni – si legge sul comunicato stampa. Impossibile recuperare i dati sull’andamento del debito: la società non deposita i bilanci dal lontano 1997, mentre i conti 2012 sono in linea con le previsioni «con ricavi a 80 milioni di euro, Ebitda del 12,9% e una forte progettualità che ha permeato l’esercizio in
chiusura e connoterà il 2013». Contattata da Linkiesta, sull’argomento non ha fornito ulteriori indicazioni.
La fiera di Bologna – la Camera di commercio è il primo azionista al 13,5% – ha archiviato il 2011 con un utile in salita a 1,23 milioni di euro, ricavi a quota 57 milioni (64,4 nel 2010) e un debito in discesa da 108,6 a 96 milioni di euro, e ha distribuito un milione di euro di dividendi per la prima volta nella sua storia. L’utile 2011 della fiera di Parma (controllata al 30,6% dalla Provincia) è crollato da 615mila a 30.500 euro, salgono i debiti – che passano da 23 a 59 milioni in dodici mesi – ma cala il fatturato da 25,7 a 20 milioni. Debacle che deriva dalla cadenza biennale di una manifestazione come Cibus, i cui effetti benefici si faranno sentire nel bilancio 2012.
Rimini (controllato da Ccia e Provincia pariteticamente al 26,44%), dal canto suo, ha archiviato il 2011 in perdita per 854mila euro rispetto all’utile di poco meno di un milione segnato nel 2010, ricavi pari a 39,7 milioni (45 milioni nel 2010) e debiti a 22,8 milioni (29,4 nel 2010). Infine, l’utile della fiera di Vicenza (il Comune è primo azionista al 32%) scende dagli 1,57 milioni del 2010 agli 1,4 milioni del 2011, mentre i ricavi salgono da 26,7 a 29,4 milioni, e il debito passa da 21,6 a 23,8 milioni di euro.
Fiera Milano Spa, unica quotata, a settembre 2012 evidenziava un utile ante imposte di 10,58 milioni di euro (5,5 a settembre 2011) e ricavi per 205,5 milioni (188,7 al terzo trimestre 2011), ma un debito salito a quota 92,6 milioni rispetto ai 52,2 di fine 2011. L’anno scorso è stato distribuito un dividendo di 20 centesimi, quest’anno non si sa. Complessivamente, nel 2011 le prime sei fiere italiane hanno generato ricavi per mezzo miliardo (508,8 milioni), utili per soli 12,6 milioni e hanno accumulato un debito di 253,8 milioni (esclusa Verona). In altre parole, i ricavi bastano a malapena a coprire i costi e l’utile a servire il debito. Quanto potrà durare?
Enrico Pazzali, amministratore delegato di Fiera Milano, preferisce non rilasciare alcun commento a Linkiesta sugli eventuali dividendi che la società potrebbe distribuire a fine marzo, ma accetta una riflessione ad ampio raggio: «In Italia abbiamo oltre 60 fiere», dice, «di queste nella top 10 mondiale c’è solo Milano. In Germania le fiere sono 16, 7 delle quali sono nella top ten. Questo perché vengono utilizzate come strumento di politica industriale: Hannover è andata in Cina per la prima volta vent’anni fa». «Il nostro problema – continua – è che abbiamo un numero di spazi espositivi esagerato rispetto alla domanda. In questo senso la proprietà del quartiere fieristico dove l’economia è in crescita rappresenta un indubbio vantaggio. Quando l’economia si contrae potrebbe dare qualche problemino, soprattutto se non si trova in un contesto competitivo».
Nonostante Fiera Milano sia entrata nel capitale della turca Interteks Uluslararasi Fuarcilik e del Cape Gourmet Food Festival di Johannesburg con un investimento di poco meno di 8 milioni di euro complessivi – e abbia annunciato 70 fiere all’estero per quest’anno, Pazzali non dimentica la Lombardia: «Noi all’anno generiamo oltre 4 miliardi di euro sul territorio, portando mezzo milione di turisti stranieri. Non bisogna poi dimenticare che il 30% delle esportazioni mondiali viene dall’Europa: Fiera Milano spende 20 milioni di euro l’anno per attrarre qui i buyers di tutto il mondo, senza alcun investimento pubblico».
Pazzali non crede che il ritorno del centralismo sia una soluzione – «non siamo in Cina, siamo un’economia moderna», dice – ma è convinto che ci penserà la proverbiale mano invisibile: «Non sarà una controriforma dell’art. V della Costituzione a razionalizzare il sistema italiano, ma lo farà il mercato. Dobbiamo smettere di finanziare a pioggia fiere e imprese in difficoltà, ma aiutare le Pmi sul territorio con i dividendi che guadagnamo in giro per il mondo». Cioè il mobiliere brianzolo, o l’artigiano marchigiano, che non hanno le risorse per andare a cercarsi i clienti nel mondo.
Se non altro le parole del presidente di Confindustria Giorgio Squinzi – «Le fiere devono essere uno strumento di politica industriale per rilanciare i settori che hanno fatto grande il nostro Paese» – hanno dato qualche speranza in più agli operatori del settore. Il nuovo presidente del consiglio, e il nuovo ministro dello Sviluppo Economico, saprà ascoltare?