C’è chi chiede il voto utile, chi “sale” in politica. E chi lamenta la presenza ostile di giudici comunisti, congiure internazionali, pifferi e pifferai. Non è ancora entrata nel vivo, ma la campagna elettorale ha già i suoi slogan. Parole chiave e tormentoni studiati per convincere gli elettori più indecisi. Alcune frasi sono estemporanee, gaffe destinate a lasciare il segno. Altre sono il risultato di più o meno riuscite analisi di comunicazione politica. Perché va bene il programma, ma una battuta efficace vale più di mille tecnicismi. Linguaggio, soprattutto. La corsa a Palazzo Chigi si combatte anche così.
La parola del momento è “voto utile”. Sta a cuore tanto a destra che a sinistra. Silvio Berlusconi la ripete spesso, con l’obiettivo di togliere qualche preferenza ai centristi (pardon, “centrini”) di Mario Monti. Pier Luigi Bersani ne abusa per esorcizzare la presenza di Antonio Ingroia. Il segretario Pd ha il difficile compito di compattare i voti di sinistra attorno al partito, senza finire vittima del fuoco amico. Le previsioni non sono positive. Il distacco tra le due coalizioni sembra diminuire. Con buona pace di chi già non ne può più, da qui al giorno delle elezioni il richiamo al “voto utile” rischia di essere sempre più massiccio.
D’altronde è un termine chiaro, comprensibile. Con una sua logica e un suo scopo. Molto meglio della metafora della lepre, lungamente sfruttata dal segretario democrat. Quel paragone tra il Pd in fuga nei sondaggi e l’animale simbolo della paura era quasi un autogol. In atletica, peraltro, la lepre è il podista più veloce. Quello che fa l’andatura durante i primi giri di una corsa. Insomma, quello destinato a non vincere mai una gara.
A questo punto tanto valeva continuare a puntare sull’Italia Giusta. Lo slogan scelto dal Partito democratico per la prima fase della campagna di comunicazione. Una frase semplice – forse non clamorosamente efficace – ma con un buon potenziale. Gli italiani l’hanno letta dappertutto: merito delle migliaia di manifesti che da qualche settimana incartano i muri delle nostre città. Stampato, il faccione di Pier Luigi Bersani. Serio, composto, ben vestito. La cravatta rossa e la fede in evidenza all’anulare della mano sinistra. Il Bersani premier: pronto e responsabile.
La responsabilità non è un valore casuale. Anzi, di questa campagna elettorale sarà probabilmente uno dei leitmotiv. Responsabile Bersani e responsabile Mario Monti. Il presidente del Consiglio non fa mistero di puntare molto su questo aspetto. In tv e alle radio il Professore non fa che ripetere il ritornello del “baratro”. Ricorda il pericolo che l’Italia ha corso nel novembre del 2011. La crisi finanziaria e il burrone a cui ci eravamo avvicinati. Gli stipendi dei dipendenti pubblici a rischio. Scenario drammatico, rientrato in extremis grazie al suo governo. E alla responsabilità dei suoi provvedimenti. Forse impopolari, ma necessari.
In fatto di comunicazione politica Monti non è uno sprovveduto. È suo uno dei primi slogan virali della campagna. Chi l’avrebbe mai detto? Dietro a quell’innocuo «ho deciso di salire in politica» – la frase con cui lo scorso dicembre il Professore ha annunciato il suo impegno – era nascosta una fine strategia. Ora per strada già si vedono i primi manifesti 6X3. «L’Italia che sale». Tra i suoi, qualcuno voleva persino candidare il comandante della Capitaneria di Porto Gregorio De Falco. Il protagonista della concitata telefonata con Francesco Schettino poche ore dopo il naufragio della Costa Concordia. «Salga a bordo, cazzo!».
Sembra tramontare il tormentone dell’“Agenda Monti”. Titolo ed essenza stessa dell’esperienza del governo tecnico. Tra novembre e dicembre politici e giornalisti politici ne hanno abusato. Ne parlavano tutti. Ora, per fortuna, di Agenda Monti non si ricorda quasi più nessuno. In compenso, come un Berlusconi qualsiasi, da qualche tempo il Professore ha iniziato a dispensare battutine e metafore. La più riuscita è recentissima. Un paio di giorni fa ha conquistato le prime pagine di tutti i giornali la favola del “pifferaio di Hamelin”. Curioso parallelo con le promesse elettorali del Cavaliere («Si vede che mi vuole tassare anche il piffero», l’ancora più riuscita replica del Cavaliere).
E poi le tasse. Tra le parole chiave di questa campagna elettorale una posizione di rilievo è già stata conquistata dalle tasse. L’Imu su tutte. Monti e Berlusconi ne parlano in continuazione. Rimpallandosi la responsabilità di avere istituito l’imposta sulla prima casa. E ovviamente prendendosi l’onore e l’onore di abolirla, una volta tornati a Palazzo Chigi. Ma limitare la campagna elettorale del Cavaliere al tema delle tasse è riduttivo. Nel giro di un paio di settimane l’ex premier ha già offerto agli italiani una lunga e variopinta lista di slogan e immagini. Anzitutto una sequela di avversari (si dice che la sua forza elettorale passi proprio dall’individuazione di qualche nemico). Si parte dai grandi classici: gli immarcescibili giudici comunisti. Senza dimenticare i politici di professione. Il Cavaliere non perde occasione per sottolineare la sua storia di imprenditore di successo. Un uomo del fare. In realtà è anche lui in Parlamento da parecchio tempo, per la precisione 18 anni. Ma questo passaggio spesso lo omette. I simboli del poltronismo romano? Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini su tutti. Non c’è una trasmissione televisiva che Berlusconi non se la prenda con i due ex alleati. «Due che nella vita non hanno mai lavorato».
Anche il Cavaliere ha affinato le armi. Oltre agli slogan tradizionali, stavolta ha introdotto in campagna elettorale due nuove immagini. Quella della crudele Germania della «signora Merkel». Mandante occulta delle politiche di austerità imposte da Monti e protagonista di una presunta “congiura internazionale” ai danni dell’ultimo governo Berlusconi. E poi c’è l’inascoltabile tiritera sulle riforme costituzionali. Il lungo, noioso, monologo sull’iter di un disegno di legge. Più che una lezione di diritto costituzionale sembra una via crucis. Come Berlusconi attacca la solfa, il conduttore di turno alza gli occhi al cielo. «Presidente, questa la conosciamo già». Lui continua, imperterrito. «Gli italiani ancora non lo sanno». E via con la storia del Consiglio dei ministri che presenta il provvedimento, il passaggio in commissione, la navetta sul Tevere, le lenti di ingrandimento del Quirinale. Ultimo, scontato, passaggio sulla Corte Costituzionale. «Un organo politico in mano alla sinistra». Probabilmente se il Cavaliere smettesse di recitare questa pièce teatrale si ritroverebbe un paio di punti in più nei sondaggi.