Tra una settimana uscirà nelle sale italiane il «Lincoln» di Steven Spielberg. Ma non è per parlare del film che abbiamo incontrato Luigi Zingales, 50 anni, professore di “Imprenditorialità e Finanza” nell’Università di Chicago. Anche se è proprio da Lincoln che l’economista padovano, fra i promotori di Fare per Fermare il declino (v. qui le 10 proposte del movimento che si presenta alle prossime politiche sotto la guida di Oscar Giannino), prende le mosse per delinerare la sua proposta politica di «un capitalismo per il popolo». Il titolo inglese originale del suo ultimo libro-manifesto, uscito in Italia come «Manifesto capitalista» (Rizzoli), riecheggia proprio quel «governo di popolo, dal popolo, per il popolo» evocato da Abramo Lincoln nel discorso di Gettysburg.
Un governo per il popolo aiuta chi ha perso il posto di lavoro?
«Certamente, bisogna proteggere i lavoratori rimasti disoccupati, e non le imprese che non hanno più mercato, e sopravvivono solo grazie alle protezioni politiche assicurate dalle lobby d’affari. È questa una logica che va spezzata: e qui si vede se i sindacati fanno gli interessi dei lavoratori. Una legislazione che protegga tutti i lavoratori, delle grandi come delle piccole imprese, è più garantista di quella attuale. Chi non la vuole è perché ha altri interessi»
Abituato alle lezioni e agli alti consessi accademici, ai think tank e ai cda, in questi giorni gira per città e paesini di provincia, e non si sottrae a incontri e comizi. Professore, perché non si è candidato? Era un’occasione per sottoporsi al giudizio del popolo.
«Credo fermamente nelle idee di Fermare il Declino e voglio aiutare a innovare l’Italia. Mi sembra importante far vedere che ci si impegna non solo per una poltrona. In Italia la gente è abituata che chi si impegna è perché vuole una poltrona. Io ho detto chiaramente che non sono interessato alla poltrona in se e per sé. Poi, se questo può aiutare a cambiare, magari domani accetterò un incarico: ma questo non è il fine, ma il mezzo. Ci sono persone radicate nel territorio, competenti, che corrono, e mi sembra giusto aiutarle».
Nel suo ultimo libro, lei parla di «agenda politica populistica che rifletta il supporto per il libero mercato e la sfiducia nel governo e nel big business». Nella tradizione europea, populista è un insulto.
«La parola è associata a due estremismi ugualmente cattivi. Ma nella tradizione americana c’è anche un populismo buono che parte dalla rivoluzione e che passa attraverso il “Gettysburgh address” di Lincoln».
Retorica buona per infiammare gli animi?
«Non è solo retorica, ma anche una visione culturale diversa. Nella tradizione americana e nell’illuminismo inglese e scozzese, la saggezza della gente viene vista come un elemento importante che porta a un sistema rispettoso della libertà, mentre nell’illuminismo francese, poi penetrato in Italia, c’è una visione del sapiente illuminato che fa il consulente del re dispotico, ma in qualche modo non implica un sì al popolo nella sua accezione più vasta».
Pare di capire che lei, unico italiano con Draghi a essere inserito nella lista dei 100 pensatori più influenti al mondo, ce l’abbia con le élites. Come si declina in Italia un’agenda politica populista pro mercato?
«Primo punto fondamentale è che in Italia esiste una crisi della classe dirigente, non solo politica ma anche economica, e c’è necessità di un cambiamento di questa classe dirigente. Guardiamo a un dato importante: la nostra bassa produttività. Ora è vero che da noi il costo del lavoro è molto elevato, anche se i nostri salari non sono i più elevati, e c’è anche un problema di cuneo fiscale, e di mancanza di flessibilità».
Colpa dei sindacati?
«Se la smettiamo di usare come scusa i sindacati, dobbiamo riconoscere che parte di questa bassa produttività è dovuta al cattivo management. Quindi il problema non è solo un problema di sindacati ma è un problema di classe dirigente».
Non c’è una buona selezione?
«Le nostre classi dirigenti, nel pubblico e nel privato, nelle grandi imprese come nelle istituzioni anche accademiche, sono cooptate per nascita e per affiliazione. Alla fine non puoi certo ritrovarti una classe dirigente competente. Poi, ci sono una valanga di eccezioni, ma il punto è che sono eccezioni, non la regola».
Ma un populista pro mercato è a favore o contro l’integrazione europea?
«L’Europa è un meraviglioso ideale, a cui aspirare. Ma nell’esperienza italiana questa Europa è stata un’imposizione di una piccola élite che ha giocato in modo intelligente per imporre anzitempo un ideale, anziché farlo condividere. L’euro ne è l’espressione più concreta. Non c’è stata una volontà condivisa, ma una fuga in avanti. Con grossi problemi strutturali che oggi ci troviamo a gestire. Il che non vuole dire che l’Italia starebbe meglio fuori dall’euro, cosa che non penso. Però secondo me, l’europeismo estremo, sordo alla gente, diventa una limitazione».
È una critica alla politica del governo Monti?
«Da economista d’impresa, rispondo facendo un’analogia con le imprese. Allora quando un’impresa è sull’orlo del fallimento, si nomina una persona che gestisca la crisi, imponga disciplina, tagli i costi. Ma c’è anche una fase naturale di rinegoziazione del debito, perché se un’impresa è andata in crisi, sicuramente è colpa del management, che va cambiato, ma anche chi gli ha prestato i soldi ha le sue responsabilità. Oggi, invece, abbiamo visto una ristrutturazione con un commissario straordinario, tutta incentrata nel far pagare all’Italia questo costo, ma non c’è stata volontà di ridurre il peso negoziando con i creditori».
Viene osservato che rinegoziare il debito avrebbe, fra i tanti altri disastri, decurtato risparmio privato. Il popolo sarebbe stato felice?
«Sì e no. Quando Grillo dice che Monti fa l’interesse delle banche non è così lontano dal vero, ma quello che io suggerivo all’epoca non era certo di fare un default. Proponevo invece di lanciare sul mercato un’offerta di scambio dei vecchi titoli con nuovi titoli di maggiore seniority [precedenza o privilegio nel rimborso in caso di insolvenza, ndr], in modo da ridurre il valore complessivo nominale del debito. Senza fare default ma anche senza dare degli enormi guadagni capitali a chi ha investito. Oggi banche, fondi e anche investitori finanziari in genere si trovano enormi guadagni in conto capitale. Chi ha comprato debito italiano a novembre 2011 siede sulle enormi plusvalenze, a fronte di un enorme costo per la popolazione: perché la gente deve sudare lacrime e sangue, e i guadagni devono essere solo di banche e investitori finanziari?».
Lei viene puntualmente indicato come “liberista doc”. Nello stesso tempo dice cose dei capitalisti intrallazzati fra di loro e con il governo che neanche un sindacalista di estrema sinistra.
«Sono convinto che la distinzione tradizionale fra destra sinistra non abbia senso. Se parliamo di sinistra come protezione degli interessi dei consumatori verso interesse delle grandi imprese, io sono di estrema sinistra. E il liberismo è di estrema sinistra. Ma non mi sembra utile ricorrere a queste vecchie categorie».
Qual è allora la differenza fra chi ha un programma politico favorevole alle imprese, un’agenda pro-business come dice lei, e invece un programma pro-mercato?
«Un’agenda politica promarket cerca di facilitare la creazione e l’entrata di nuove imprese nei vari settori. Cosa che in Italia non solo non vien fatta, ma costantemente ostacolata. Anzi, da noi, se si può si cerca di rafforzare qualche campione nazionale e più in generale di rimpolpare i profitti delle imprese esistenti a spese di tutti: questa è invece un’agenda pro-business. L’esempio più drammatico di questo è Alitalia. Gli è stato dato il monopolio sulla rotta Milano-Roma, per fortuna poi è arrivata la Freccia rossa che ha creato competizione. Adesso saltano fuori con l’idea geniale di fonderle, sia mai che si possa creare un po’ di concorrenza».
I soldi del governo devono andare ai giovani imprenditori e alle start up, come ha fatto per esempio il ministro dello Sviluppo economico Passera?
«Secondo me, bisogna creare le condizioni affinché le start up possano operare senza sussidi, anche perché si pone subito il problema di chi li distribuisce e come».
Da buon liberista, diffida dello stato.
«Qualcuno ama classificarmi come liberista perché ha paura del messaggio dirompente che io e tutti quelli di Fermare il Declino portiamo avanti. Invece, la nostra proposta è più ampia ed è il messaggio più innovativo nella realtà politica italiana, che faciliterebbe maggiormente un ricambio non solo della classe politica ma di quella dirigenziale in genere».
Ci sono paesi che tengono insieme presenza dello stato e qualità dei servizi.
«In un mondo di efficienza svedese, potremmo anche discuterne. Ma in una realtà con la corruzione italiana, non se ne esce: non c’è altra soluzione possibile che un’estrema riduzione del ruolo dello stato».
Tagliare i costi della politica.
«Non si riesce a moralizzare vita pubblica italiana, se non si riduce prima la politica. Non si tratta solo di tagliare numero e stipendi dei politici, che è una cosa certamente importante e che non voglio minimizzare. Ma non penso nemmeno che il problema sia tutto qui. Il vero dramma non è che un politico guadagni una cifra spropositata, il vero dramma è che poi ha accesso una serie di nomine e di potere economico estremamente elevato. E questo corrompe la politica in maniera irrimediabile, e a cascata l’economia. Alla fine succede che il ricambio politico non riesce a cambiare la realtà: pure un movimento duro e puro come la Lega si è tradotto nel più ammanicato di tutti i movimenti».
Le leggo una frase: la «scarsa trasparenza dei rischi è una delle cause più profonde della crisi… il ruolo della Consob diviene dirimente in quanto il risparmio nazionale è il bene strategico da tutelare per fronteggiare la crisi». Condivide?
«Sicuramente».
Sono frasi tratte da un comunicato della Cgil contro l’attuale politica della Consob.
(sorride) «Mi ha colpito molto la frase della Camusso che metteva in prima linea la difesa del risparmio italiano come elemento fondamentale di una politica economica di un nuovo governo della sinistra. Se vogliamo far ripartire il paese, dobbiamo mobilizzare il risparmio. E finché questo non viene tutelato in modo corretto, la gente non investe, e il paese non riparte».
La Consob è troppo sensibile alle ragioni dell’industria finanziaria?
«Diciamo che non c’è mai stata molta attenzione al ruolo pericoloso che hanno le banche nei rapporti con i risparmiatori, mentre tradizionalmente c’è maggiore attenzione verso i rischi di mercato. In Italia il regolatore non ha mai preso di punta il sistema bancario, che ha sempre gestito i risparmiatori in maniera paternalista, se vogliamo essere gentili. Questo è stato particolarmente vero anche dopo che è scoppiata la crisi. I risparmiatori sono stati indirizzati a sottoscrivere titoli delle banche, che per fortuna non sono fallite, ma hanno sottoposto risparmiatori a rischi forti di cui non erano consapevoli».
Nel 2009 la Consob obbligò le banche a dire al cliente le probabilità dei rendimenti potenziali a scadenza, implicite nel prezzo di vendita dei prodotti: erano i cosiddetti “scenari probabilistici”. Poi ha fatto marcia indietro.
«È abbastanza scandaloso che la Consob non difenda una cosa positiva che ha fatto con gli scenari probabilistici».
La lobby bancaria ha sollevato obiezioni tecniche e alla fine l’ha avuta vinta.
«Questo è un esempio brillante di come le lobby si incuneano nelle tecnicalità per difendere i loro interessi. I regolatori, non solo italiani, vengono “catturati” dai soggetti che dovrebbero controllare. Ora le soluzioni a queste obiezioni delle banche ci sono, ma il tentativo riuscito dell’industria finanza è stato di buttare via il bambino e l’acqua sporca, o meglio di utilizzare l’acqua sporca per buttare via il bambino».
Fa bene il sindacato a interessarsi di queste cose, andando oltre le tradizionali tutele salariali?
«Mi ha fatto piacere vedere che il sindacato, in cui solitamente non mi riconosco, abbia capito l’importanza della tutela risparmio in Italia e nel mondo in generale, ma particolarmente in Italia. Il risparmio è un bene nazionale da tutelare, se non lo tuteliamo finisce per essere indirizzato e gestito altrove. In questo, però, vorrei essere chiaro, perché a volte il sindacato è ambiguo: io non sono a favore del protezionismo finanziario, ma nemmeno all’opposto. Non accetto, cioè, che il risparmio venga tutelato solo se va all’estero, perché questo non può che danneggiare il paese».
Che cosa c’entra la finanza con l’uguaglianza di opportunità e con il merito, e perché lei dice che è un equalizzatore?
«La finanza è un equalizzatore perché, se utilizzata bene, è uno strumento che permette di trasformare i sogni in realtà. In un mondo in cui non c’è accesso al credito, solo i figli dei ricchi possono intraprendere nuovi progetti potendo partire da un patrimonio preesistente. In un mondo in cui c’è accesso al credito e finanziamento delle idee, invece, quello che conta è la qualità delle idee, e quindi la meritocrazia e non la ricchezza dei genitori».
La meritocrazia estrema cozza con l’uguaglianza, e anche con il buon senso. A fronte di risultati aziendali in linea con i concorrenti, il lavoro di un top manager vale davvero 100, 200 volte il salario medio dei dipendenti?
«La meritocrazia prevede non solo compenso per il merito ma anche una punizione per il demerito. Tutti i cosiddetti “paracadute d’oro” vanno contro il merito».
Li vieterebbe?
Si potrebbe pensare a mettere dei paletti. Quello che fa ridere è che i manager protestano contro la scarsa flessibilità del lavoro, ma gli stessi manager hanno protezioni maggiori dei dipendenti. In linea teorica, per un top manager la cosa più corretta sarebbe avere una forma di protezione quando l’azienda va bene. Per esempio, se un manager è licenziato o costretto ad andarsene a causa di lotte intestine fra i soci, pensi per esempio a quanto è accaduto a un manager bravo come Colao alla Rcs, allora avere una protezione ha un senso. Ovviamente, quando l’azienda va male non ci deve essere nessun paracadute, anzi il manager dovrebbe restituire parte di quanto ricevuto in precedenza. Purtroppo, il mercato manageriale e della corporate governance non è competitivo: in Italia si arriva lì più per appoggi che per competenza».
Accademici ed esperti indipendenti presenti nei cda non hanno cambiato di molto la situazione. Anzi, spesso lisciano il pelo ai manager.
«Non c’è ancora abbastanza indipendenza da parte dei consigli di amministrazione. E va riconosciuto che gli stessi motivi che mettono a rischio l’integrità delle autorità di vigilanza, valgono anche per consiglieri indipendenti ed esperti in genere. Mi spiego: quando uno ci tiene a stare in cda, finisce per essere gentile con il management se questo massimizza la possibilità di esser rinnovato. Per questa ragione, sono un forte sostenitore di un sistema di governance dove sono gli azionisti di minoranza ad eleggere i propri rappresentanti in cda. In questo modo, io come amministratore posso criticare quanto voglio il management ma ciò non ha nessun impatto sulle mie possibilità di rielezione. Cosa che però non succede per la maggior parte delle posizioni in Italia, ma nemmeno negli Stati Uniti. Ecco perché diventa importante garantire l’accesso ai dati: quanto più c’è trasparenza, tanto accademici e giornalisti possono evidenziare i problemi che esistono».
Pochi giorni fa, in relazione alla vendita de La7, Telecom Italia ha deciso di ricorrere a una deroga agli obblighi informativi. Si va nella direzione opposta a quanto ha appena detto. E lei è nel cda di Telecom come consigliere di minoranza.
«Su questo preferisco non commentare perché come consigliere ho una responsabilità verso la società. Io sono spesso critico ma faccio la mia critica all’interno del consiglio. Diversamente, quando uno decide di non potere più stare dentro, allora esce e critica da fuori».
Ultima questione. Monti ha perso un’occasione per riformare l’Italia o, come dice lui, è colpa dei partiti che l’hanno bloccato?
«Oggettivamente non so rispondere perché non ho esperienze governo, e non so dire quanto si potesse processare in un breve periodo di tempo. Lui aveva a disposizione una brevissima finestra che ha utilizzato solo per fare la riforma delle pensioni, dura ma utile. Sicuramente, in alcuni casi non ha dimostrato l’aggressività necessaria. Per esempio, in Finmeccanica avrebbe potuto fare piazza pulita ma non l’ha fatto. Sul resto sospendo il giudizio. Dove invece non sospendo il giudizio, è sulla sua discesa in politica, perché non solo ha infangato la sua immagine futura ma anche quella passata di governo tecnico. Siccome è andato in politica oggi, e siccome credo nelle aspettative razionali, questa scelta non può essere una sorpresa».
Sta dicendo che quando negava di voler entrare nell’agone politico, Monti mentiva?
«Non dico questo, non posso saperlo. Lui dice che è salito in politica per salvare e continuare l’agenda del suo governo. Secondo me, l’ha infangata in maniera irreparabile».
Twitter: @lorenzodilena