No, la politica industriale non è affare da magistrati, come ha scritto giustamente Marco Alfieri su Linkiesta, ma spesso tocca a loro fare luce dove la politica non vuole vedere e agire. Eppure gli strumenti per passare all’azione ci sono.
Gli altri come fanno? “Di fronte alle imprese in difficoltà lo Stato non può più restare sul suo Aventino e mostrarsi indifferente…ma deve impegnarsi a fare pedagogia dei cambiamenti inevitabili per migliorare la competitività dell’economia”. Non sono le parole di Susanna Camusso né quelle di Pierluigi Bersani ma il passaggio di un recente editoriale di Le Monde. L’industria francese ha i nervi così scoperti – “La grande panne de l’industrie française” ha scritto Les Echos – e, che piacciano o no, le iniziative del Ministro francese responsabile del rilancio produttivo hanno portato di forza in prima pagina il dibattito sul ruolo dello Stato nell’economia, e soprattutto nell’industria. Arnaud Montebourg, portabandiera della de-globalizzazione già prima di essere ministro del Governo Hollande, si sta facendo notare per la volontà, quasi l’ostinazione, di difendere le imprese francesi su tutti i fronti, dall’ipotesi di chiusura a quella di una de-localizzazione produttiva, e soprattutto in tutti i modi, perfino mostrando l’arma impropria della “nazionalizzazione provvisoria” di fronte a quelle che chiama “multinazionali predatrici”. Un atteggiamento talmente eccitante per le zone più erogene della sinistra francese radicale, da essere più d’una volta contenuto persino dal Primo Ministro Jean-Marc Ayrault, che gli ha impedito di intervenire a gamba tesa contro la chiusura dell’acciaieria di Florence, dell’indiana Mittal.
La domanda di politica industriale in Italia è in aumento, ma resta inevasa: al Ministero dello Sviluppo Economico si sono affastellati 150 dossier di crisi aziendali aperti negli ultimi anni – fanno sapere che quasi la metà dovrebbero essere risolti a breve – e la Cgil aggiorna gli stati di crisi con una frequenza settimanale che fa pensare a tutto, tranne che ad un aumento di problemi improvviso. Finchè si tratta di fisco, lavoro e pensioni si può lanciare l’esca delle riforme in là, e tirar su la lenza dopo qualche anno, ma la crisi di questi anni porta ogni giorno sul tavolo del Governo i problemi di imprese che chiudono, minacciano scioperi, o preparano esuberi importanti.
È storicamente noto che la Francia non ci pensi due volte prima di intervenire nell’economia con mano forte, e la presenza diffusa di colossi nazionali con una grande intensità di lavoro giustifica uno Stato più abituato a mettere il naso negli affaire privés che altrove. L’assioma non deve però portare necessariamente a considerare la lunga carovana delle piccole e medie imprese italiane meno meritevoli di attenzione da parte della politica, ma osservare l’esperienza francese consente qualche valutazione empirica, buona per affrontare numeri “tristi” che non sono più solo il picco in un grafico, ma prendono la forma ampia e scura di un fenomeno statisticamente rilevante, come oltre 100 mila aziende chiuse in un anno.
Stato – stratega. Sul piano inclinato della crisi lo Stato può recitare di volta in volta la parte di commissario, regolatore, gestore/imprenditore o finanziatore, talvolta del boia. “Non può fare tutto ma non può dare l’idea che non possa fare niente” sostiene il Primo Ministro francese Ayrault, e da queste parole si capisce che la Francia ha già scelto: lo Stato che ha in mente Hollande, neppure tanto diverso da quello a cui pensava Nicolas Sarkozy, è “stratega”. È pedagogo che educa l’economia privata francese e con la bacchetta indica la via tra crisi e competitività globale.
Scrive il manager economista Gian Maria Gros-Pietro che “la politica industriale di un Paese può cercare di favorire un indirizzo a sé favorevole dei processi di rimodellamento della struttura produttiva mondiale” e l’indirizzo francese, soprattutto nel medio-lungo periodo si può leggere tra le pieghe delle strategie del Fondo Strategico di Investimento – l’Fsi è al 51% della Caisse des Depots ed al 49% dello Stato, con impieghi diretti all’investimento in oltre 1800 imprese – che enuncia con chiarezza di non avere una vocazione all’investimento nei servizi finanziari, la distribuzione, l’immobiliare ma nei settori già attivi, ad alto potenziale nella creazione del valore, quelli in fase di mutazione, e quelli che hanno competenze, tecnologie e lavoro insostituibili per il territorio nazionale ed europeo. Ecco una versione strong della politica industriale di cui (non) si parla tanto in Italia. Ma se ne possono trovarne di forme più edulcorate, dalla nazionalizzazione di General Motors negli Usa di Obama fino alla la diretta partecipazione azionaria francese in 58 imprese nazionali.
Lo Stato è chiamato ad un nuovo ruolo di “risolutore di ultima istanza”, da Fiat all’Ilva fino ad Alitalia, ma potrebbe assumere molte altre forme più soft, a patto di ottenerne una qualche efficacia. Ha fatto il liberalizzatore solo a metà (spesso trasferendo monopoli dal pubblico al privato), come privatizzatore ha lasciato sul terreno morti e feriti e spesso ha distrutto valore, da commissario fa spesso il timido e dimostra poco interesse dei consumatori/azionisti. Di fronte all’elenco di crisi aziendali così lungo come quello attuale, per la prima volta è di fronte all’obbligo di una gestione costante anche di affari privati in cui le priorità saranno i settori, i posti di lavoro o le tipologie di business.
La prima alternativa, seguita fino ad oggi, è l’impotenza che ha condotto all’attuale agonia, che viene ancor prima della pur cieca tentazione di azioni protezionistiche o nazionalizzatici à la carte. Ci sarebbe anche una seconda via, più dolce per i realisti e meno aspra per i “liberisti maturi”: l’opzione di uno Stato che da erogatore si fa “promotore”, capace di muoversi a fisarmonica, in tandem con il settore privato, esercitando la forza economica a tempo determinato, “che dà indirizzi alle società in cui investe senza sostituirsi all’azionista” scrive Andrea Montanino in Private equity e intervento pubblico. La via intermedia di una politica che metta in conto con coraggio la possibilità di staccare la spina a produzioni che non portano prosperità e sviluppo, e con decisione aiuti i progetti afflitti dalla “sindrome Salerno – Reggio”, come la banda larga, a fare quell’ultimo miglio per arrivare a destinazione dove il mercato non arriva. Una strada da percorrere con il fattore equity e con una squadra di manager pubblici collaudati e capaci di destreggiarsi tra liquidazioni, commissariamenti e magari ristrutturazioni lunghe e impervie come una cordata in doppia, tra pubblico e privato, dove se cadi tu cado anche io. In questo senso assume, o potrebbe assumere, un ruolo strategico la nostra Cassa Depositi e Prestiti.
Soldi freschi e manager capaci. La Cdp è stata definita “un gigante addormentato”, o “la bella addormentata”. Oggi c’è una parte liberista dell’establishment che la guarda con diffidenza e la considera pericolosa e foriera di interessi politici, o per paura di metterci le mani la vorrebbe privatizzata, se non addirittura quotata, e pensa che stia facendo troppo. Una parte più sindacalizzata la vorrebbe invece generosa, moltiplicatrice di pani e di pesci e magari con un impegno diretto sui dossier più delicati, come l’Alitalia. Mentre dalle colonne del Corriere si paventa il ritorno di un “mito neo statalista” ci sono uomini nuovi che cominciano a reclamarne l’uso in maniera impropria ed inconsapevole, cogliendo la più liquida delle sue accezioni e considerandola appunto un forziere dedicato a “debiti e prelievi”.
Altri, con esperienza, ne avvertono la portata strategica e la guardano come un motore da potenziare per riattivare la crescita, creare campioni nazionali, finanziare le Pmi, strumentale quindi ad un nuovo modello di sviluppo. Si parla del destino della Cassa proprio mentre prendiamo appunti dalla lezione dal professor Francesco Giavazzi, su come si debbano fare innovazione e politica industriale senza il telecomando dello Stato – in maniera diversa dal dopoguerra, dice – anche se è difficile dimenticare quanto innovativo, statalista ma soprattutto imprenditoriale sia stato l’approccio di un Enrico Mattei qualsiasi, che prese un ramo secco da tagliare, l’Agip, e lo trasformò in una pianta del pane come l’Eni, vedendo l’opportunità in un problema.
L’argomento suscitava polemiche già ai tempi di quel Quintino Sella noto alle stampe contemporanee più per la scrivania di ciliegio su cui è stato firmato il “Contratto con gli italiani” che da ministro o fondatore del Club Alpino Italiano (Cai). È bene chiarire che per la maggior parte delle sue attività, Cassa lavora oggi come una banca della Pubblica amministrazione, raccoglie il risparmio retail (il più retail, con le movimentazioni anche da 3mila euro, di 25 milioni di italiani) con cui finanzia gli enti locali. Una funzione poco nota e certamente poco cool, che forse non interessa ai liberisti-fuori-tempo-massimo, ma è fondamentale nel passaggio storico della nostra finanza pubblica sotto le forche caudine del Patto di stabilità, ubriacata talvolta dalle sirene dei derivati che stiamo scoprendo sotto il tappeto. Un cambiamento travagliatissimo per i nostri enti locali, già eccitati da una riforma del Titolo V che ha dato anche un po’ alla testa, tra rotatorie peregrine e municipalizzate monstre, funzionali più alla creazione di poltrone ed all’esternalizzazione dei debiti, che all’aggregazione dei costosi particolarismi.
Non fa certo male ai sindaci di oggi il nuovo ruolo di Cassa, in questi tempi in cui la finanza di provincia viene dalla commistione di cui si parla, tra banche e piccoli potentati politici, e va verso una nuova disintermediazione finanziaria che spinge anche le realtà più piccole a racimolare un po’ di denaro sperando di colmare il vuoto lasciato dalle banche (nascono Fondi per le Pmi in ogni piccola realtà distrettuale). Per tanti sindaci, anche quelli bravi che potrebbero indebitarsi almeno un po’ e infischiarsene di quell’odioso patto, la Cassa è spesso il soggetto che valuta gli investimenti e gli obiettivi dei mutui richiesti. La stessa che presta, oltre che i soldi, anche un lavoro amministrativo su rischi, strutture finanziarie, project financing, dismissioni, sia di comuni virtuosi di sindaci brava gente che sono efficienti (i mutui di scopo si sono ridotti del 50% a riprova della efficacia del Patto), ma anche di chi vende l’argenteria per finanziare la spesa corrente, non gli investimenti, oppure chiede ancora mutui per l’acquisto di immobili (si, ce ne sono ancora).
Cassa è quindi una banca che “scambia” il tempo, una cosa oggi più preziosa e rara del denaro, il tempo, incrociando una raccolta al dettaglio esigibile “a vista” come il risparmio postale, contro progetti di lungo periodo (dalle Pmi a progetti infrastrutturali di 20 anni): è appunto un “finanziatore paziente”. E per chi produce, cosa c’è oggi di più necessario se non la pazienza?
La crisi ha poi tirato via il coperchio e dato alla Cassa di altre funzioni, che vanno dalle reti fino all’export, e si può essere d’accordo o meno con il recente attivismo di un soggetto che si muove con circa 300 miliardi e 500 dipendenti, mentre la KFW tedesca ha un bilancio da 500 miliardi e 6mila dipendenti, ma sarebbe sensato non stravolgerne le funzioni e non buttare a mare quanto fatto di buono fino ad ora.
La parte che fa più gola alla politica e suscita battagliette in punta di penna tra professori (nell’inchiostro c’è sempre lo spauracchio dell’Iri) è quella che la impegna in operazioni di equity che hanno per oggetto la finanza privata, laddove in questo momento di aziende in crisi può nascere la tentazione di chiedere una mano allo Stato. Tutto si può cambiare, ma a statuto attuale la Cassa non può: sono off limits le operazioni su aziende che non abbiano solidità patrimoniale e reddituale (delle 700 in cui potrebbe intervenire, solo 100 sarebbero “fit”). Fino ad oggi ha mantenuto un low profile – come ha scritto di recente il Financial Times – ed anche chi in questi anni ha fatto di tutto per renderla più forte, considerandola una protagonista “necessaria” della finanza pubblica di questi tempi di incertezza, magari incrocia le dita in silenzio, sperando che la politica ci metta le mani il più tardi possibile, col rischio di fare grossi danni.
“In questo mondo per crescere servono creatività e flessibilità, non una politica industriale che affida le scelte allo Stato” scrivono Alesina e Gavazzi, ma la politica industriale che, nel suo raggio d’azione comprende anche gli incentivi alle imprese, e quindi il loro taglio, non è fatta di geniali strategie, quanto più di scelte semplici. Rafforzare la Cassa è già una scelta, come pure quella del Pd che nel programma scrive che “è necessario ripensare le linee strategiche e gli strumenti della politica industriale. L’illusione che sia il mercato a far crescere l’economia ci sta portando a sbattere. La risposta spontanea delle imprese (alla globalizzazione) è insufficiente”.
Politica industriale è dunque scegliere su cosa investire, cosa incentivare, cosa ci serve ed a cosa possiamo rinunciare, sempre nel perimetro di regole certe. Non si tratta infatti di battersi nella solita guerricciola sterile tra liberisti e statalisti, confermando che siamo in perenne ritardo rispetto agli Usa (da quanto hanno smesso di essere liberisti fino in fondo?), ma di tirar fuori un po’ di coraggio per scegliere che alcuni settori si possono lasciar andare e, parole di Bersani a Ballarò, “le aziende italiane, piuttosto che chiudere, meglio agli investitori stranieri”.
Politica industriale è capire che gli investitori buoni sono tutti senza passaporto, che siano Qatar Holding o il Fondo Mubadala (in arrivo a Milano la prossima settimana). Dovrebbero esserci buoni e cattivi investitori e basta, essendoci buoni investitori stranieri e cattivi investitori italiani. Italiani che chiedono continui prestiti a certe banche di sistema per costruire immobili che nessuno comprerà, come stranieri che sanno attendere, scommettere sul successo di un’attività senza succhiarne la cassa, pur essendo “temutamente” libici. Altri ancora che si definiscono “industriali” quando c’è da ritirare il dividendo, ma si rivelano solo “finanziari” quando c’è da investire sulla banda larga o la ristrutturazione delle reti. Che n’è stato di Bulgari? E Parmalat? Più di un miliardo di liquidità, estratta con fatica da Enrico Bondi, fuggita in Usa, passando per la Francia, non valeva ben una messa?
La crisi è un ottimo momento per ragionare sul piano meno ideologico del conto economico e dello stato patrimoniale, nella logica più realistica secondo cui si è liberisti quando si può e difensori dell’interesse nazionale quando si deve.
*laureato in Scienze internazionali a Milano da dieci anni si occupa di export dentro e fuori le Pmi, tra capannoni e ricerca. Ha scritto “Esportare l’Italia” per Guerini e Associati