Sono andata a visitare la mostra Alighiero Boetti a Roma (esposta al Maxxi fino al 6 ottobre) che si propone di «raccontare il rapporto tra un artista insofferente alle definizioni e una città che diventa per lui trampolino per l’ignoto e ispirazione per nuovi percorsi creativi». Dalla cartella stampa apprendo che Boetti, lasciata Torino per la capitale nell’autunno del 1972, vivrà Roma come «una porta verso l’Oriente» e come luogo di riscoperta del colore: «Ho scoperto a posteriori che a Torino non usavo mai i colori. Forse percepisco il troppo rigore della città…».
A condividere le suggestioni orientalistiche e la vitalità creativa di quegli anni romani sono Francesco Clemente e Luigi Ontani presenti anch’essi in mostra dove le opere esposte (trenta in tutto di cui molte inedite) dei tre amici-artisti dialogano le une con le altre in un intreccio di rimandi e connessioni. Un anno prima di Roma c’era già stato per Boetti l’Afghanistan dove, fino all’occupazione sovietica del 1979, tornerà a intervalli regolari aprendo anche un albergo a Kabul. È lì che commissionerà a ricamatrici locali le sue famose, coloratissime Mappe che accompagneranno tutto il suo percorso artistico e la cui realizzazione, a partire dagli anni Ottanta, verrà affidata a donne afgane rifugiatesi in Pakistan.
Possiamo ammirarne due alla mostra dove, non lontano dall’esplosione di colori e oggetti dell’opera Tutto, scopro una piccola teca che contiene tra le altre cose un vecchio catalogo. Sulla pagina aperta del volume esposto Boetti affianca, come in un gioco di specchi, una sua fotografia a quella del suo trisavolo Giovanni Battista Boetti, “missionario del settecento”. Conoscevo l’ossessione di Boetti per il concetto di doppio tanto da farsi chiamare Alighiero e Boetti, ma nulla sapevo di questo alter ego settecentesco. Rientrata a casa, consulto l’enciclopedia Treccani e mi imbatto in una storia incredibile:
Boétti, Giovan Battista Curione – Frate domenicano e avventuriero (n. Piazzano, Monferrato, 1743 – m. dopo il 1798); frate nel convento di Ravenna, inviato come missionario in Oriente (1769), rivelò assai presto il suo temperamento di avventuriero geniale. Fondata nel 1784 ad ῾Amādīyah (Iraq) una nuova religione, misto di cristianesimo e d’islamismo, alla testa di 80.000 settarî, col nome di profeta Manṣū’r (Vittorioso), conquistò l’Armenia, il Kurdistan, la Georgia e la Circassia, costituendo uno stato teocratico. Catturato dai Russi nel 1791, fu relegato nell’isola di Solovetskij, nel Mar Bianco.
Approfondisco sul Biografico dove trovo dettagli sempre più incredibili, fra viaggi mirabolanti (Costantinopoli, Mosca, Kazachistan, Persia, Georgia, Crimea, Costantinopoli, Polonia…) disavventure galanti, sospetto spionaggio, incontri illustri (Pio VI, Vittorio Amedeo III, Potëmkin, Caterina II…), predicazioni blasfeme (sì all’incesto e al suicidio, Cristo non è che un uomo…). Scopro poi che la figura di Boetti-Mansur va a confondersi con quella di Sheykh Mansur considerato l’iniziatore della lotta del popolo ceceno contro il dominio russo e a cui è stata intitolata la piazza principale di Groznyi dopo l’indipendenza.
Il nazionalismo ceceno rifiuta questa ipotesi negando l’esistenza stessa di Boetti, forse figura troppo ambigua sulla quale fondare la propria identità nazionale. Affascinata, continuo a navigare su Internet passando da un vecchio articolo della Storia Illustrata che, basandosi su un fantomatico Diario di Boetti, lo paragona a Casanova e a Cagliostro, a uno più recente del Giornale che narra delle celebrazioni che il Comune di Camino, nel Basso Monferrato, ha promosso per il bicentenario del suo cittadino più illustre e dove apprendo che Serena Vitale, slavista di vaglia, ha dedicato a Giovanni Battista Boetti una parte del suo libro L’imbroglio del turbante (Mondadori, 2006). In una serie d’interviste l’autrice racconta di come si sia imbattuta per caso in questo personaggio e che, conquistata dalla sua figura, sia andata a infilarsi «in un’indistricabile matassa di qui-pro-quo, confuse nouvelles de bouche, agnizioni, sparizioni, leggende, lacune nella storia, verità approssimative o vere e proprie menzogne tra le quali dovevo cercare di trovare il bandolo della – almeno – verosimiglianza».
La Vitale, dopo un attento lavoro sulle fonti – la prima delle quali è una Relazione datata 1786 custodita nell’Archivio di Stato di Torino – non è riuscita a svelare del tutto il mistero del «monaco profeta», ma è riuscita a ristabilire qualche verità: «eliminato l’impossibile, e cioè la vecchia, risibile favola del Boetti che ‘conquistò l’Armenia, il Kurdistan, la Georgia e la Circassia e vi regnò sei anni quale sovrano assoluto’ […] mi sono poi concentrata quasi ossessivamente sui luoghi citati nella Relazione […] ricostruendo un itinerario diverso da quello che viene spacciato per vero». La studiosa dichiara però che certamente gli Sceicchi Mansur furono più di uno e che non può escludere che sotto il suo nome possono aver agito varie persone, anche Boetti: «Il libro si è rivelato a mia insaputa, man mano che studiavo e trovavo materiali inediti, un libro sul doppio (sosia autentici, in carne e ossa, non quelli creati dalla letteratura romantica)». Doppi, cartine colorate, trame inestricabili, dettagli che impediscono la visione d’insieme, oriente misterioso: sembra la descrizione dell’opera di Boetti, Alighiero. Anni fa un critico chiese all’artista: «Qual è l’aspetto magico del tuo lavoro?» e Boetti rispose: «Le felici coincidenze. Le cose se non sono segrete s’annacquano».