PECHINO – «In Cina sembra che sindacalisti e ufficiali governativi siano la stessa cosa!». È quanto affermato da un lavoratore cinese durante un’indagine compiuta dal China Labour Bulletin, una ong di Hong Kong che si occupa da anni del mondo del lavoro della Cina continentale. La frase esprime in maniera chiara la concezione del “sindacato” del lavoratore cinese tipo, presupponendo per altro una conoscenza, seppure parziale, di quanto può significare un sindacato all’interno del percorso produttivo. La verità, infatti, come messo in evidenza da ricerche o da un semplice scambio di vedute con un qualsiasi amico cinese, è che i lavoratori di nuova generazione ignorano completamente cosa significhi e cosa può fare – in teoria – un sindacato dei lavoratori.
È anche per questo che la notizia diffusa dal Financial Times nei giorni scorsi, secondo la quale la Foxconn darebbe il via a vere elezioni tra i lavoratori per eleggere i propri rappresentanti, potrebbe avere una portata storica. La notizia per altro sfodera un’altra delle tante contraddizioni cinesi: la Foxconn, proprio l’azienda taiwanese, protagonista di molte delle news e dei reportage sulle dure condizioni dei lavoratori in Cina, già protagonista di scioperi, rivolte e suicidi, sarebbe portatrice di una tale “rivoluzione”. In mancanza di altri dati, oltre a quelli annunciati dall’azienda che riportiamo di seguito, abbiamo chiesto proprio al China Labour Bulletin un’opinione al riguardo.
Secondo Geoff Crothall, responsabile della comunicazione della ong di Hong Kong, «il passaggio che la Foxconn vuole compiere per ampliare e democratizzare il sindacato aziendale è ovviamente un passo nella giusta direzione, ma è un piccolo gesto che deve essere seguito da molte altre azioni più consistenti: se il sindacato vuole essere davvero un’organizzazione pienamente funzionante deve essere in grado di rappresentare i diritti e gli interessi dei lavoratori».
La questione quindi non sarebbe tanto la creazione di un sindacato. Che del resto in Cina ci sarebbe già: il grosso punto interrogativo riguarda il «riconoscimento» del sindacato come controparte in un’eventuale contrattazione, come sottolinea Crothall. «Non ha senso avere elezioni sindacali se il capo si rifiuta ancora di parlare con il sindacato. Così, perché questa riforma possa avere un senso, la Foxconn dovrà accettare il sindacato come partner paritario nella contrattazione collettiva per risolvere i conflitti e migliorare la retribuzione e di lavoro condizioni che richiedono un massiccio investimento nelle logiche di cultura aziendale da parte della Foxconn, che finora ha gestito ogni processo in modo esclusivamente autoritario, chiedendo di determinare unilateralmente la retribuzione e le condizioni di lavoro, richiedendo in cambio solo cieca obbedienza».
Innanzitutto, in cosa consisterebbe questa riforma? Secondo il Financial Times, che cita fonti «affidabili» vicino all’azienda, «dopo la festa del capodanno cinese di questo mese (9 e 10 febbraio ndr), la Foxconn inizierà la formazione dei suoi lavoratori cinesi per votare i loro rappresentanti. Essi sceglieranno fino a 18mila membri sindacali il cui incarico scade quest’anno e nel 2014. Foxconn ha inoltre specificato che oltre il 70 per cento dei 188 dipendenti eletti rappresentanti nella sua fabbrica di Shenzhen era già composta da lavoratori impegnati in prima linea. Tuttavia, fonti affidabili, hanno detto che gli operai hanno storicamente avuto poco da dire ai comitati che gestiscono il sindacato».
Il quotidiano finanziario, infine, specifica: «Dal momento che i sindacati non hanno finora avuto alcun ruolo reale nell’affrontare le rimostranze dei lavoratori e sono stati dominati dalla direzione, la maggior parte dei giovani lavoratori non hanno idea di cosa sia un vero e proprio sindacato dovrebbe fare».
Quest’ultima riflessione è collegata all’esistenza di una storia sindacale in Cina, direttamente intrecciata a quella del partito, che ha di fatto depotenziato l’istituzione sindacale. In Cina esiste infatti la Federazione dei Sindacati di tutta la Cina o Acftu. Come emerge dal rapporto del Clb sui vent’anni del sindacato cinese, il governo ha sempre definito i conflitti sociali come «contraddizioni interne alla popolazione», rispondendo con un approccio volto a «controllare, governare e organizzare qualsiasi tipo di conflitto». Dato che in Cina un sistema di contrattazione collettiva efficiente è ancora assente l’Acftu agisce attivamente «solo a violazione di diritti già avvenuta, così che i lavoratori sono costretti ad appellarsi al governo». Come specifica il Clb, «la preoccupazione delle autorità non risulta però essere la risoluzione dei conflitti sul lavoro, poiché la loro natura economica viene politicizzata; essi non sono infatti considerati come dispute tra lavoratori e amministrazione aziendale bensì come minaccia alla stabilità sociale. Non stupisce dunque che Pechino consideri l’ACFTU e le altre organizzazioni sociali come strumenti di supervisione dei cittadini».
E non stupisce dunque che le giovani generazioni dei lavoratori cinesi ignorino o non nutrano alcuna fiducia nei confronti dell’istituzione sindacale. Si tratta dei Xinshengdai nongmingong, ovvero la nuova generazione di lavoratori migranti, i nati dopo il 1980. «Si stima che circa due terzi dei lavoratori cinesi appartengano a questa nuova generazione – spiegano quelli del Clb – nel marzo 2010 secondo l’Ufficio nazionale erano il 61,6% del totale».
Un’indagine effettuata dall’Acftu su mille imprese e oltre 4mila lavoratori in 25 città in tutta la Cina, ha rivelato alcune delle principali differenze tra la nuova e la vecchia generazione: «I livelli di istruzione sono più alti». Il 67,2% dei lavoratori di nuova generazione ha il diploma (si tratta del 18,2% in più rispetto alla precedente generazione); i nuovi migranti cambiano i datori di lavoro in media una volta ogni quattro anni (0,26 volte l’anno), mentre gli immigrati più anziani cambiavano lavoro una volta ogni dieci anni in media. E soprattutto sono per l’azione diretta: per scioperare, in modo autonomo, senza nessun apparente mediazione sindacale, come hanno dimostrato quasi tutti gli scioperi dell’ultimo periodo nelle realtà lavorative cinesi. Nel 2012 gli «incidenti di massa» nel mondo del lavoro, sarebbero stati oltre 150. E quasi tutti per rivendicazioni salariali.