Compro oro, gli avamposti della criminalità organizzata

Compro oro, gli avamposti della criminalità organizzata

Gennaio 2013, Milano. Tre negozi nello stesso isolato aperti negli ultimi mesi, vetrine oscurate e pubblicità martellanti. A Milano come nel resto d’Italia, il fenomeno è talmente sfuggito di mano che non esistono statistiche aggiornate sul numero effettivo di compro-oro, ma secondo l’Aira (Assocazione Italiana Responsabili Antiriciclaggio) sono oltre 30000 sparsi in tutta la penisola e fatturano 14 miliardi euro all’anno, l’equivalente di una finanziaria.

“Effetto della crisi, si vendono i gioielli di famiglia per pagare l’Imu e le bollette” hanno ipotizzato alcuni quotidiani. «Niente di più falso – dichiara Ranieri Razzante, consulente della Commissione Parlamentare Antimafia – La percentuale di persone in difficoltà economica che si recano in questi negozi è assolutamente irrilevante». Che l’offerta di compro-oro sia sproporzionata rispetto alla domanda è evidente; centinaia di questi esercizi rimangono deserti anche per giorni interi. Dietro la proliferazione di queste attività c’è molto altro che non il semplice commercio di metalli preziosi.

Ricettazione, riciclaggio di denaro sporco, usura ed evasione fiscale: sono questi i reati più contestati. Secondo le recenti indagini della Guardia di Finanza l’attività illecita è imputabile al 60% dei compro-oro e di questi il 20% è gestito direttamente dalla criminalità organizzata; a favorirne la crescita ci sono meccanismi relativamente semplici che sfruttano la totale assenza di un quadro normativo. 

In primo luogo sempre più spesso scippatori e ladri d’appartamento si liberano della refurtiva rivendendola immediatamente a quegli esercizi che non richiedono una dichiarazione sulla provenienza dell’oggetto, non obbligatoria per legge. I pedinamenti e le intercettazioni ambientali delle forze dell’ordine hanno sgominato intere bande che si avvalevano di questo sistema; addirittura molte persone hanno ritrovato i loro preziosi rubati presso i negozi.

Se invece si tratta di criminalità organizzata, i compro-oro vengono usati per liberarsi del denaro sporco: il cliente viene pagato con il contante guadagnato con lo spaccio di droga e lo sfruttamento della prostituzione. I clan inoltre si arricchiscono concedendo prestiti a tasso d’usura in cambio dell’impegno temporaneo di oggetti preziosi. Infine non dichiarano il passaggio dell’oro alla fonderia, eludendo il fisco e facendo così concorrenza sleale agli operatori onesti.

Tuttavia l’assenza di tracciabilità non è l’unico vantaggio per la criminalità; il problema maggiore è la facilità con cui si aprono gli esercizi: è sufficiente affittare un locale di 10 metri quadri e in 24 ore si è già operativi. A ciò si aggiungono passaggi di proprietà troppo repentini per non destare sospetti: in media ogni 2-3 mesi cambia la gestione.

A completare il quadro di attività illecite sono i continui tentativi di truffa ai danni della clientela tramite bilance truccate: la valutazione di una catenina d’oro può variare tra i 375 e i 530 euro, nello stesso giorno e nello stesso quartiere, a seconda dal grado di onestà dell’esercente.

«Per peso demografico, Pil e immigrazione clandestina, la Lombardia, Milano in particolare, ha una sorta di attrazione magnetica per la criminalità organizzata», spiega Patrizio Locatelli, coordinatore di Anopo (Associazione Nazionale Operatori Professionali Oro). Così anche nella regione più ricca d’Italia, i clan non si sono lasciati sfuggire il business dell’oro. A documentarlo è un dossier realizzato in collaborazione tra Aira e Anopo.

Per ottenere una mappatura completa di tutti gli esercizi sul territorio sono state incrociate due ricerche: una tramite i canali ufficiali (Pagine Gialle e Banca Dati Cerved) e l’altra tramite una osservazione sul campo e Google. Dall’indagine emerge un’incoerenza totale tra i risultati ottenuti: secondo i canali ufficiali gli esercizi aperti sono 453, ma nella realtà se ne contano oltre 7000.

Razzante punta il dito contro le amministrazioni locali: «Non c’è stata nessuna reazione né della giunta Pisapia né dalla giunta Formigoni». David Gentili, presidente della Commissione Antimafia del Comune di Milano, ammette le responsabilità: «Abbiamo sottovalutato il problema e ora siamo in ritardo di parecchi mesi». Tuttavia qualcosa inizia a muoversi e in febbraio lo stesso Gentili incontrerà i vertici di ANOPO per pianificare una strategia.

Ma se la politica locale latita, anche a livello nazionale il fenomeno è completamente ignorato. L’unico atto ufficiale sul tema è una proposta di legge dell’onorevole Mattesini (PD) risalente al 31 ottobre scorso, e attualmente a prendere polvere nei cassetti della Commissione Antimafia.

Così nella lotta contro illegalità rimangono le forze dell’ordine e la magistratura. «Sono il nostro unico baluardo. Combattono quotidianamente le infiltrazioni mafiose nell’indifferenza generale- attacca Razzante – e questo lo trovo scandaloso». 

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