E solo un quinto dei grillini condivide le idee di Grillo

E solo un quinto dei grillini condivide le idee di Grillo

Italiani strana gente, ma strana davvero. Almeno a giudicare dal sondaggio dell’istituto di ricerca, Swg, che Linkiesta è in grado di anticipare sui driver del voto di questa bizzarra campagna elettorale, tutta focalizzata sulla giostra fiscale fra promesse da (non) mantenere e annunci ad effetto, che fanno oscillare gli umori di un elettorato sicuramente disorientato, ma anche disincantato. Altrimenti non si spiegherebbe perché su un campione di 2.500 intervistati, alla domanda «Quali sono le motivazioni per cui lei sceglierebbe di votare questo partito?», il 31% dichiara di «condividerne le idee», ma solo il 9% lo farà perché, indipendentemente dallo schieramento scelto, lo ritiene «responsabile, capace di governare», mentre chissà perché, solo l’8% «lo reputa onesto» e sempre l’8% afferma: «Mi convince il suo programma».

In questa carrellata statistica, piuttosto scoraggiante, solo il 7% degli intervistati sostiene che il suo partito «fa gli interessi di tutti». Perciò, a voler interpretare questi dati, gli italiani sembrano voler dire che «se ne fregano del programma, tanto sanno che non verrà rispettato», spiega a Linkiesta Enzo Risso, direttore scientifico di Swg, che ha curato la ricerca. E se poi si approfondiscono le ragioni delle loro ragioni, a seconda dello schieramento per cui dovrebbero votare (il condizionale è sempre d’obbligo davanti alle indagini statistiche, che possono essere smentite), si scopre l’esistenza ancora di uno zoccolo duro di elettori, i quali votano seguendo un’appartenenza identitaria, o ideologica che dir si voglia. Soprattutto nel centrodestra, dove prevale maggiormente la volontà di opporsi al partito “Nato nel ’21”, come ha dichiarato qualche giorno fa il premier Mario Monti, con una maldestra e anacronistica gaffe sul Pd. Infatti, fra quelli che dichiarano di voler votare il Pdl, il 41%, «ne condivide le idee», mentre il 35% lo considera «il meno peggio» e il 20% perché «mancano alternative».

Sul fronte opposto invece, dato significativo per chi crede che il Pd sia ancora un polo di attrazione ideologica, il 32% vota il Partito democratico solo perché lo considera «il meno peggio», il 31% perché «ne condivide le idee», mentre il 21% lo reputa «capace di governare». In sintesi: chi vota il Pdl, ne condivide le idee ma non lo ritiene in grado di governare, soprattutto dopo i tanti contratti firmati con gli italiani in diretta in tv e poi disattesi, mentre i follower di Pier Luigi Bersani si accontentano, e pensano «e poi che Dio ce la mandi buona» a voler tradurre l’indagine quali-quantitativa su un campione di 2500 intervistati – come si legge nella breve nota introduttiva sulla metodologia adottata – con un commento da bar.

Il bello deve ancora venire. Riguardo al M5S, i suoi elettori, come si sa, sono animati dalla volontà del cambiamento. Infatti il 64% dei simpatizzanti grillini dichiara di voler sceglierlo «perché vuole cambiare le cose», ma poi, interpellati sui contenuti programmatici del M5S, appaiono incerti, per usare un eufemismo. Infatti solo il 20% afferma di «condividerne le idee». Come se le idee grilline non fossero importanti, ma ci si limiti a un voto di protesta o, a voler essere maliziosi, perché i seguaci del comico genovese non sappiano davvero quali siano le sue linee guida.

Se invece ci si addentra nel sacro suolo padano, il 43% degli elettori leghisti afferma di voler ridare fiducia al partito di Roberto Maroni «perché attento al territorio», ma la percentuale di coloro che ne condividono le idee è minore: il 34%. Un dato che secondo Enzo Risso sottintende la tendenza già registrata in passato dell’elettorato leghista di votare in modo disgiunto alle elezioni amministrative e politiche: al Nord va bene la Lega perché difende (o almeno ci prova) gli interessi locali, ma zoppica sui temi nazionali, trasversali, di più ampio respiro per i quali si può optare per entrambi gli schieramenti, Pdl o Pd. Infine, Monti. Secondo l’analisi sui driver del voto, la Scelta Civica con Monti per L’Italia, non rappresenta un cambiamento capace di rompere gli schemi del bipolarismo e rimescolare le carte, in nome del riformismo, come invece i montiani auspicano.

Chi afferma di voler scegliere la nuova coalizione centrista guidata dal premier, lo fa perché la considera «il meno peggio» (41%), mentre il 36% perché il professore «ispira fiducia» e solo il 10% lo considera «responsabile». Morale? Nella slide che spiega su cosa si gioca la campagna elettorale, complessivamente il 45% ritiene che la campagna si giocherà sul cambiamento, «ma in questa risposta il cambiamento va inteso in senso relativo», osserva Enzo Risso, «e cioè sui cambiamenti anche all’interno delle coalizioni, che in qualche caso hanno dimostrato di voler scompaginare le alleanze o modificare le liste dei candidati, magari solo per essere più presentabili». Al secondo posto, per gli intervistati, la campagna elettorale si gioca «sugli umori» (21%), al terzo «l’abitudine a votare gli stessi partiti» (16%) e al quarto, e penultimo posto, prima della rituale risposta «non so» si trova il benedetto programma (6%). Da questa rilevazione si potrebbe quindi dedurre che i partiti possono licenziare gli spin doctor e non perdere tempo a scrivere e illustrare le tante agende per fare le riforme. Tanto nessuno ci crede più. Se si vota, si vota per appartenenza, o deriva identitaria, oppure per scegliere il meno peggio. 

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