«Il lavoro non è un diritto, va conquistato». Elsa Fornero, ministro del Lavoro, ribadisce a Linkiesta le sue parole pronunciate in una famosa intervista al Wall Street Journal, spiegando: «Il diritto al lavoro va declinato nella realtà, non va solo enunciato». Sta valutando la proposta del Max Planck Institute di Monaco di Baviera («da lì – dice – ne approfitterò per riflettere»). Sui giovani choosy afferma: «Sono ben consapevole che non hanno strumenti di fronte al precariato», mentre sul suo operato da ministro ammette: «Ho delle amarezze perché alcune occasioni sono state mancate, su tutte la capacità di dare il senso della direzione». Tuttavia, a fronte delle critiche sulla riforma del lavoro, si difende: «Ho detto molte volte che c’è gente che giudica in modo frettoloso con “ricerche” questa riforma, ma ci vuole un po’ di tempo e dati adeguati. La legge 92 all’art. 1 istituisce un sistema di monitoraggio e valutazione, ci abbiamo lavorato e ieri in un seminario a porte chiuse abbiamo presentato i dati, che saranno resi noti alle parti sociali il 7 marzo». Sulla riduzione degli oneri fiscali che gravano sulle spalle di chi dà lavoro, invece, osserva: «Per affrontare la recessione con decisione ci voleva una forte riduzione del costo del lavoro, ma non abbiamo potuto realizzarla perché non avevamo la condizione finanziaria che ci avrebbe consentito di farlo». Ecco il suo bilancio di un anno da ministro.
Ministro, come sta?
Sul piano psicologico sono avvilita e abbattuta, ma al contempo sono ancora determinata nel cercare di contrastare i mulini a vento, cosa che sto facendo da quando ho assunto questo incarico. Almeno posso dire di averci provato. Ho cercato di affrontare i temi del mercato del lavoro con un atteggiamento non ideologico ma partendo dall’analisi dei problemi, da dati quantitativi ed empirici, cercando di dare risposte.
Gli ultimi dati Istat evidenziano un calo dell’occupazione. Da luglio – quando è entrata in vigore la riforma – a oggi si sono persi 300mila posti di lavoro, a quando i primi benefici?
Nella valutazione di questa riforma hanno giocato molto la confusione tra le misure che sarebbero state necessarie per contrastare la recessione e quelle per riformare il mercato del lavoro, due cose ben distinte. Avevamo un problema di comportamento strutturale del mercato del lavoro che mi è stato chiesto di modificare, e poi una questione di recessione. Per affrontare la recessione con decisione ci voleva una forte riduzione del costo del lavoro, ma non abbiamo potuto realizzarla perché non avevamo la condizione finanziaria che ci avrebbe consentito di farlo. L’altro giorno parlavo con Michel Sapin, ministro del Lavoro francese: loro hanno favorito un accordo sulla produttività che è più incisivo e radicale del nostro e che rappresenta, per loro, il modo con cui confrontare il tema della competitività dell’industria francese: Bene, ci hanno messo 20 miliardi strutturali! Noi sulla produttività abbiamo potuto mettere 1,2 miliardi per il 2013 e 400 milioni per il 2014. Ho detto molte volte che c’è gente che giudica in modo frettoloso con “ricerche” questa riforma, ma ci vuole un po’ di tempo e dati adeguati. La legge 92 all’art. 1 istituisce un sistema di monitoraggio e valutazione, ci abbiamo lavorato e ieri in un seminario a porte chiuse abbiamo presentato i dati.
Quando saranno resi noti?
Il 7 marzo presenteremo alle parti sociali i dati che riguardano gli infortuni e tutte le entrate e le uscite nel mercato del lavoro, integrando i numeri del ministero, dell’Inps e dell’Inail. Poi i dati saranno messi a disposizione della comunità scientifica per una valutazione della riforma e per rispondere alle domande. Abbiamo fatto questo sforzo inserendoci all’interno di un programma Istat di allargamento della base conoscitiva, perché senza una buona conoscenza dei problemi non si può fare nessuna politica.
Perché tassare i contratti a tempo determinato dell’1,4% in più, e quelli di apprendistato dell’1,65 in più in un momento di crisi?
La risposta è sempre la stessa: l’assenza di risorse. In questa riforma c’è una parte della quale tutti si dimenticano quando parlano di restrizioni alla flessibilità in entrata, ed è quella sugli ammortizzatori sociali: abbiamo cercato di renderli più generali per andare verso un modello universale, ma anche molto più efficienti. È un disegno di medio periodo, certo non è un cambiamento fatto per la recessione, posto che, in ogni caso, non avevo la possibilità di utilizzare risparmi strutturali di spesa da altri fondi o di ricorrere ad altre entrate. Avremmo dovuto dire: “questa tassazione non si applica nell’anno di recessione”, ma così facendo avrei creato un vuoto di bilancio e avrei dovuto trovare io le risorse per superarlo, e francamente ottenere anche quel po’ di risorse che abbiamo messo in campo è stato fortemente difficile. In questo c’è stata una tensione chiarissima tra il superamento delle difficoltà del momento, che è un’esigenza delle imprese che capisco, e gli aspetti strutturali. Io mi prendo tante colpe e tanti oneri però il governo è fatto di tante persone, non era solo responsabilità del ministro del lavoro trovare risorse per superare la recessione. Oltretutto sulle politiche macroeconomiche scontiamo vincoli di bilancio stretti e l’impossibilità di fare politiche espansive. Sono certa che la valutazione sulla riforma sarebbe stata molto diversa se noi avessimo potuto dire: “Signori, questi sono i cambiamenti, ma per affrontare le difficoltà del 2013 mettiamo 5 miliardi di riduzione delle imposte e del cuneo fiscale”. Purtroppo non potevamo farlo.
Come risponde alle critiche di chi ritiene che all’Aspi manchi la parte relativa alle politiche attive?
Le politiche attive erano previste dalla legge 92, ma questa delega va realizzata con il concorso delle Regioni, che hanno la responsabilità in questo ambito. Quando il governo nel mese di novembre era ancora attivo e io avevo pronto il decreto – che metterò sul sito a disposizione per chi verrà dopo di me – ne parlai con Errani e Simoncini (presidente della Conferenza delle Regioni e coordinatore degli assessori al lavoro per la Conferenza delle Regioni, ndr), il quale peraltro ha confermato questa versione dei fatti, e mi sentii dire: “ministro, non abbiamo spazio perché Lombardia e Lazio devono andare alle urne a breve e comunque i loro consigli regionali erano già stati sciolti”. I critici hanno ragione nel dire che l’Aspi regge solo se attuiamo delle politiche attive e se realizziamo interventi che vanno a incidere sull’occupabilità delle persone. Sono convinta che ci sia bisogno del concorso di tutti, anche nel campo delle politiche attive così come nella promozione del lavoro e dell’occupazione credo ci sia bisogno di una collaborazione fattiva tra stato, enti locali e privati. Uno degli obiettivi della riforma è creare un mercato dinamico e un mercato nel quale non è possibile stare per 10-15 anni in sistemi di protezione del reddito senza che ci siano interventi sull’occupabilità delle persone.
In una famosa intervista al Wall Street Journal disse che “il lavoro non è un diritto”, inteso come “posto di lavoro”. Lo ribadisce?
Sì certo. Il punto importante è ribadire che il diritto al lavoro va declinato nella realtà, non va solo enunciato. Qui parliamo anche del diritto a essere assistiti da professionisti quando i giovani lasciano il mondo della scuola per entrare in quello del lavoro, o quando il posto di lavoro si perde o quando un contratto a termine non viene rinnovato. Invece di continuare a usare risorse pubbliche per far finta che ci sia ancora quel posto di lavoro e lasciare il lavoratore senza assistenza, è molto meglio riconoscere che quel lavoro non c’è più, e occuparsi di aumentare le probabilità che il lavoratore trovi una nuova occupazione. Lo youth guarantee è un altro piccolo scossone che potrebbe essere importante in questo senso. Mi spiego: ora che l’Europa considera allontanato lo spettro del baratro finanziario si può occupare più seriamente di economia reale, che vuol dire occuparsi del benessere delle persone e della mancanza di prospettive per i giovani. Nello specifico, il prossimo 28 febbraio a Brurxelles i ministri del Lavoro europei contano di arrivare a emanare una raccomandazione che viene chiamata youth guarantee, che consiste nel mettere in campo tutti gli strumenti affinché un giovane che lascia la scuola o una persona giovane che lascia un posto di lavoro riceva entro 4 mesi dalla fine della scuola o perdita dell’occupazione almeno un’offerta. Può avere il senso di un piccolo choc positivo che costringe molte realtà territoriali abituate un po’ male, che non sanno fare le politiche attive e sono capaci solo di chiedere soldi per la cassa in deroga.
Un modo per rendere i giovani meno choosy?
Quella campagna è stata frutto della disonestà di un suo collega. Usavo dire una volta ai miei studenti di non essere choosy, ma lasciamo da parte le strumentalizzazioni, sono ben consapevole che i giovani non hanno strumenti per contrastare il precariato.
Perché ha preso tempo prima di firmare i primi accordi del 2013 sulla cassa in deroga?
Io non ero stata neanche informata della lettera dell’Inps che imponeva il termine ultimo di presentazione delle richieste al 31 dicembre scorso. Siccome le risorse non sono illimitate, abbiamo avuto bisogno di tempo per capire analizzare le domande da parte delle Regioni, abbiamo poi effettuato una ricognizione di fondi a disposizione per il quadriennio, dalla quale abbiamo capito di poter mettere a disposizione 200 milioni, non di più.
Come spiega il rinvio della busta arancione (il calcolo della pensione futura con il sistema retributivo, ndr) anche per il milione di persone a cui mancano 6-7 anni alla pensione a dopo le elezioni?
Le buste non sarebbero state mandate in ogni caso prima delle elezioni perché l’Inps è impegnata, ho voluto che si concentrasse a mandare prima le lettere di salvaguardia (per gli esodati, ndr), che certificano la salvaguardia dei precedenti requisiti per il pensionamento, perché le persone sono in ansia. Credo che abbia terminato l’invio delle prime 65mila. Sicuramente presenteremo le buste arancioni prima che questo ministro vada via.
Si sente di aver messo in moto una rivoluzione culturale?
Credo di sì, la riforma avrà successo se servirà a modificare i comportamenti, ma si deve trattare di cambiamenti in profondità e non di piccoli ritocchi, il senso della riforma strutturale è questo, la nostra economia non cresce da 15 anni, è un malessere che ha radici lontane nel nostro modo di intendere il lavoro e l’occupazione, e di facilitare il lavoro e l’occupazione, se riusciremo a dare corso alle diverse prospettive nelle quali la riforma opera.
Si rimprovera di non aver fatto di più?
Direi che ho delle amarezze perché alcune occasioni sono state mancate, su tutte la capacità di dare il senso della direzione. Ho sempre parlato di un governo tecnico che doveva instradare il Paese, ma è mancata la percezione che questo percorso portava verso a una nuova crescita. Purtroppo il frastuono con cui il dibattito in Italia spesso si caratterizza non ci fa vedere le prime piccole gemme di crescita economica, ma c’è bisogno anche di una crescita civile e morale, senza la quale faremo ancora tanta fatica.
Ritornerà a insegnare?
Ho appena ricevuto un’offerta per andare al Max Planck Institute di Monaco, da lì ne approfitterò per riflettere.