Frequenze libere, o l’Italia non sarà mai “digitale“

Frequenze libere, o l’Italia non sarà mai “digitale“

Si fa presto a dire agenda digitale. Un po’ meno a riempirla di contenuti. Corrado Passera, che ne ha fatto un perno del suo mandato da ministro, e nel decreto Crescita 2.0 ha indicato la priorità e creato una cabina di regia – che coinvolge Comuni, Regioni e tre ministeri (economia, istruzione e sviluppo economico) – per accelerare lo sviluppo delle infrastrutture e dell’egovernment, degli open data e dell’ecommerce, delle città intelligenti e dell’innovazione sistematica. Iniziative che rischiano di rimanere lettera morta se il nuovo esecutivo non si muoverà con urgenza per far partire il contenitore messo a disposizione dal dicastero di via Veneto, alla luce di un progetto di politica industriale. Oggi il braccio operativo del governo è l’Agenzia digitale, guidata dal manager ex Poste Agostino Ragosa, ente finito nel mirino dei sindacati per il tentativo di approvare in fretta e furia – prima della scadenza elettorale – il suo statuto, che prevede 16 dirigenti, con un contratto di 24 mesi, e 150 dipendenti. Domani si vedrà. Intanto i 32 decreti attuativi di cui si compone l’Agenda digitale sono congelati. 

Per uno Stato con le tasche vuote, risparmiare e al contempo offrire migliori servizi ai cittadini, è un imperativo categorico. Secondo le stime dell’Osservatorio agenda digitale della School of management del Politecnico di Milano (finanziato anche da Intesa Sanpaolo e Telecom Italia), l’agenda digitale per la Pa può libeare risorse per 70 miliardi di euro. Quasi 5 punti di Pil. Nello specifico: 5 miliardi nell’ipotesi di un aumento dal 20% al 30% della penetrazione dei pagamenti elettronici consumer, 10 miliardi dalla digitalizzazione dei documenti fiscali, altri 5 miliardi se si passa dal 5% al 30% dell’eProcurement (gli appalti telematici, ndr), 15 miliardi dalla riallocazione del personale pubblico verso mansioni più produttive, 23 miliardi dalla riduzione dei costi della burocrazia, e 2 miliardi di minori oneri finanziari sui pagamenti dei fornitori.

Stesso dicorso per quanto riguarda la “virtualizzazione dei server”, il cloud. È sempre il Politecnico a calcolare che «considerando solamente la Pubblica Amministrazione centrale in Italia si contano oggi oltre 1000 Data Center per un totale di 27.000 server dislocati su tutto il territorio nazionale, su cui operano 7300 risorse umane dedicate». Renderli virtuali porterebbe un beneficio pari a 5,6 miliardi di euro in 5 anni. 

Questioni che, a leggere i programmi dei principali candidati a Palazzo Chigi, la politica ha ben in mente. Sulla necessità di colmare lo spread digitale che ci separa dal resto d’Europa – non solo perché è proprio Bruxelles a chiederlo – sono tutti d’accordo. A variare sono le ricette: il Pd propone un piano infrastrutturale straordinario per la banda ultralarga, assieme a catasto del sottosuolo, accesso al web di scuole e strutture sanitarie e pagamenti elettronici per i quali il Pd prevede di stanziare almeno «3 miliardi di euro nella prossima programmazione dei fondi europei 2014 – 2020 (sia i fondi di coesione sia quelli del programma europeo Horizon 2020), per portare connettività in fibra ai servizi universali». Se Scelta Civica propone la continuità con l’Agenda del ministro Passera, puntando soprattutto su open data e cloud computing, il Pdl punta sulla piena applicazione del codice della Pa digitale e alla fatturazione elettronica. Nel programma di Pd e Pdl compare anche il tema della net neutrality, cioè la parità di condizioni d’accesso alla rete per tutti gli operatori sul mercato. 

La Consip, la centrale acquisti della Pa che con le sue 13mila stazioni appaltanti non brilla per efficienza, ha indetto per il 2013 gare per 3,5 miliardi di euro «per assicurare l’interoperabilità di base ed evoluta e la cooperazione applicativa dei sistemi informatici e dei flussi informativi» a servizio dell’Agenda digitale. Un progetto attualmente in fase di pre-informativa al mercato, che rappresenta una sorta di “moral suasion” per dare impulso a Telecom, Fastweb, Ibm e gli altri a investire, e alle pubbliche amministrazioni di tarare i propri fabbisogni efficientemente. Venerdì scorso, inoltre, sono stati sbloccati 900 milioni per la banda larga al Sud, fondi reperiti dal Miur e dal Piano di azione e coesione. 

Insomma, almeno trapela l’esigenza di mettersi al passo. In un report della società di consulenza Accenture, emerge che solo il 4% delle Pmi italiane offre servizi di ecommerce, rispetto al 21% di quelle tedesche, navigano in rete il 51% degli italiani, rispetto al 77% dei tedeschi, e solo il 22% degli italiani si interfaccia con la Pa via web, rispetto al 50% dei tedeschi. Eppure i risparmi per i cittadini che si ritroveranno nella propria casella mail i risultati degli esami sanitari, le fatture e i certificati dell’anagrafe vanno di pari passo con la sostenibilità economica degli investimenti da parte dei soggetti che li rendono possibili.

Per farlo servono due elementi: una maggioranza politica forte e una politica industriale che stabilisca priorità e tempi per sviluppare la rete (sopra o sotto il marciapiede) a velocità superiore ai 10 megabit al secondo. Il classico imputato a cui si addossano le colpe dei ritardi è Telecom Italia, con i suoi 60mila dipendenti, 29 miliardi di debiti e una rete in rame ormai obsoleta la cui cessione alla Cassa depositi e prestiti non avverrà in tempi brevi, per usare un eufemismo. La realtà – al netto di Telecom – è più complessa, e sconta due approcci opposti alle reti: quello secondo cui la domanda è spinta dalla disponibilità dell’infrastruttura, e quello che vede la selezione dell’infrastruttura da realizzare in base alla domanda. Due visioni della partita che implicano questioni regolatorie e industriali completamente differenti, e pongono una domanda non banale: come si incentivano gli operatori a investire alla luce dell’oligopolio televisivo, dello spettro da liberare entro il 2015 a favore del traffico dati – ce lo chiede l’Europa – e della rete in rame di Telecom?

Ognuno ha la sua ricetta. Antonio Sassano, ordinario di Ricerca Operativa alla Sapienza di Roma, da tempo si batte per valorizzare lo spettro elettromagnetico. «Fino a poco tempo fa», dice a Linkiesta, «i registri delle frequenze erano cartacei. In questo senso gli sforzi del nuovo presidente dell’Agcom, Angelo Cardani, sono stati notevoli, rendendo pubblico il catasto delle frequenze. Valorizzare lo spettro significa liberarlo da usi improduttivi, assegnare le frequenze con aste pubbliche, chiedere il pagamento di canoni annuali correlati con il loro valore, e porre fine alla loro occupazione abusiva». Gestire le frequenze, per Sassano, significa anche formare persone in grado di farlo: «Il digitale terrestre è basato su un brevetto francese, ogni volta che se ne compra uno una piccola percentuale va ai francesi, che hanno introdotto lo standard Dvb-T. Loro sono stati bravi a lavorare in questa direzione a livello internazionale, noi lo saremo?».

Un tema su cui l’Agcom sta riflettendo è se liberare lo spettro a favore dei servizi al cittadino, attraverso un piano per incentivare gli operatori televisivi a trasmettere via cavo. Una soluzione che non è facile né immediata. Secondo un manager di lungo corso nel settore televisivo, il governo dovrebbe da un lato regolare l’offerta di contenuti televisivi online, dall’altro mettere la rete a servizio dei produttori dei contenuti, con la “modalità Terna”, la società che gestisce i tralicci scorporata da Enel nel 1999. E meno male, sostiene l’operatore, che Telecom stia cercando di dismettere i panni dell’editore: dopo i massicci investimenti in Stream e successiva vendita alla Sky di Rupert Murdoch, dopo la cessione dei satelliti geostazionari di sua proprietà, oggi sta cercando di concentrarsi soltanto sulla telefonia.

Per lo sviluppo delle reti Ngn, spiega una fonte Agcom, da un lato Telecom preferisce non dare agli Olo (other licensed operators, cioè tutte le compagnie non dominanti, ndr), la disponibilità dell’ultimo miglio (dalla centrale all’abitazione, ndr) dall’altro per rispettare i vincoli dell’agenda digitale europea, che impongono 100 megabit al secondo entro il 2020 per il 50% della popolazione, non è possibile collocare due Dslam (apparecchi di modulazione delle connessioni a banda larga, ndr) all’interno di un unico armadietto telefonico, perché i loro segnali si disturbano. Dunque per l’Agcom uno scambio equo con Telecom potrebbe essere lasciarle la gestione dell’unbundling, cioè l’utilizzo della propria infrastruttura dietro il pagamento di un canone – attualmente 9,67 euro dalla centrale alla casa, 6 euro dal cabinet a casa – in cambio dello sviluppo della fibra nelle aree più sviluppate del Paese. 

«In Turchia per ottenere la licenza la legge obbliga gli esercizi commerciali a dotarsi di un sito web», racconta a Linkiesta un dirigente Telecom sotto garanzia di anonimato, che cita un altro dato: «Nel 2000 Fastweb ha reso disponibili collegamenti a 100 mega per 2 milioni di linee, 12 anni dopo ne ha collegate 200mila». A dire: oltre all’ansia infrastrutturale, c’è domanda o no? Le Regioni, che gestiscono soprattutto il capitolo della sanità, hanno una responsabilità di centrale importanza nel definire le loro agende digitali locali. Telecom invece, gravata dal peso dei sui 25 milioni di linee telefoniche in rame, chiede al prossimo ministro due cose: certezza della politica industriale e prezzi ragionevoli per remunerare gli investimenti nelle connessioni ad alta velocità.

Nel nuovo piano industriale la società guidata da Franco Bernabè prevede di investire 5,3 miliardi l’anno nei prossimi tre anni per connettere il 30% delle case italiane a una velocità superiore ai 30 mega, mentre per il Fiber to the home (la fibra fino all’abitazione, che desaturerebbe gli armadietti) l’approccio sarà selettivo, a seconda cioè della domanda. L’Europa, con il commissario Neelie Kroes, sta puntando a un modello Openreach evoluto, con una separazione funzionale e di governance (ma non societaria) della rete, sulla base dell’esperimento inglese. Un’opzione che sta bene a Telecom, a patto di non mollare la presa sull’ultimo miglio: Agcom impone infatti all’incumbent (l’operatore dominante, ndr) non solo di realizzare un collegamento se l’Olo (acronimo che indica gli operatori non dominanti, ndr) ne riconosca il preventivo, ma anche sui prodotti attivi, cioè sul prezzo del servizio di bitstreaming e di virtual unbundling, che presuppongono entrambi l’accesso per gli olo dall’armadietto di Telecom. 

Sul discorso Lte (o 4G), l’ultimo standard di scambio dei dati via mobile, il ragionamento di Telecom è diverso. Prossimamente andrà all’asta la banda a 700 Mhz, da liberare entro il 2015. Due anni fa, complessivamente, Telecom, Wind e Vodafone hanno sborsato 4 miliardi di euro per le frequenze 4G, il grosso nella banda a 800 Mhz: ogni euro risparmiato nella nuova asta andrà nello sviluppo della fibra, come è avvenuto in Spagna. 

Per un operatore alternativo, invece, è la domanda a seguire l’offerta. Sulla banda larga, racconta una fonte all’interno della società guidata da Paolo Bertoluzzo, la media europea dei ricavi dell’incumbent è del 57% rispetto al 70% di Telecom, mentre per quanto riguarda le linee di accesso “fisiche” della rete sono di Telecom il 99% di quelle sul territorio nazionale rispetto al 77% del resto d’Europa, ma soprattutto la generazione di cassa è totalmente in mano a Telecom. Non solo: l’8% delle unità immobiliari in Italia è coperta da fibra ottica, il Portogallo il 41 per cento. Come se ne esce? Con un prezzo di accesso alla nuova infrastruttura in fibra paragonabile a quello del rame. Alla fine del mese l’Agcom sarà chiamata a definire i prezzi di riferimento all’ingrosso proposti da Telecom per l’unbundling: per il Vula (virtual unbundled local access, simile al bitstream, una soluzione temporanea adottata in Gran Bretagna), Telecom ha proposto 31 euro al mese, la media eurpea è 16 euro mentre l’Agcom ha chiesto di scendere a 24 euro. 

Oltre a un tema di costo, gli Olo ne sollevano uno di accesso: la tecnologia può essere includente oppure escludente. Con il bitstream sulla rete in rame, la modalità classica dell’Adsl, i servizi sono forniti da Telecom. Con il Vula, invece, è l’operatore a mettere i propri servizi sopra al flusso dei dati del proprio cliente che passa attraverso la fibra ottica di Telecom. Con l’end to end, invece, l’Olo può “noleggiare” parti di rete da Telecom come se fosse di sua proprietà. A Milano Wind e Vodafone hanno siglato un accordo con Metroweb, che possiede l’ex rete pubblica in fibra ottica, ma è un’eccezione non replicabile, essendo il capoluogo lombardo la città più cablata del Paese. È qui che devono intervenire con maggiore forza Agcom e il ministero dello Sviluppo Economico: quale tecnologia, quali investimenti e per quale idea di Paese supportare l’Agenda digitale?

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