Mi consentoHabemus Papam e il finanziatore che voleva cambiare il finale

Habemus Papam e il finanziatore che voleva cambiare il finale

“Che cosa dovrei dire? Che sono stato bravo?”, così Nanni Moretti risponde a Curzio Maltese che oggi lo intervista su Repubblica. Che sia affine o no alla decisione assunta da Ratzinger, è innegabile che con il suo Habemus Papam il regista sia stato quantomeno profetico. Se vogliamo, involontariamente profetico. Anche perché, e lui nell’intervista lo ribadisce, Moretti punta il dito sull’aspetto umano del “suo” papa, interpretato da Michel Piccoli, e del senso di inadeguatezza che ti può cogliere quando ti ritrovi proiettato a un’altitudine che non immaginavi e che capisci di non poter reggere. Quindi, in realtà, la similitudine è più immaginifica che altro. Ma c’è. E balza agli occhi. Vista anche la portata storica dell’evento.

Qui, però, è di un altro aspetto che vogliamo parlare. Nel corso dell’intervista, Nanni Moretti rivela: «Uno dei finanziatori del film non era d’accordo sulla rinuncia del papa, mi aveva suggerito di ribaltare il finale e di farne uno con un termine che mi sono dovuto scrivere perché non lo conoscevo, ecco qui: “payingoff”. Insomma appagante per lo spettatore. Io prendo in considerazione tutte le obiezioni alla sceneggiatura, ci abbiamo riflettuto, ma ci sembrava che quello fosse il finale giusto per quel personaggio, per quella storia, per il sentimento che volevo raccontare con il film».

Payingoff, quindi. Noi quasi ce lo immaginiamo il finanziatore, magari con accento romano, pronunciare quel termine in una frase probabilmente infarcita di altre parole inglesi. Perché lui, chissà in base a quali criteri, conosce il pubblico e sa quel che va e cosa no. Appagante, dunque. Come se un’opera d’arte – e un film è un’opera d’arte – non debba invece lasciarti inchiodato alla sedia anche quando le luci di sala si accendono, e non debba ronzarti nella mente e nel cuore il più tempo possibile. Come se un film non debba invece rimanerti dentro e toglierti ogni voglia di parlare per non smarrire quella sensazione che si è impadronita di te in quelle due ore magiche.

In quella frase di Moretti c’è l’eterno rapporto tra arte e denaro, tra artista e committente, tra regista e produttore. C’è l’inquietudine, il senso di superiorità, e se vogliamo anche l’orgoglio dell’artista che si ritrova a dover discutere – ineludibile compromesso – con chi garantirà vita alla sua creatura. Ma c’è, prepotente, anche il senso di estraneità, di irrilevanza, e forse di rabbiosa inferiorità, di chi avverte sulla propria pelle in qualche modo l’inadeguatezza del proprio patrimonio e vorrebbe invece essere “artista”, anzi si ritiene “artista”. Personaggio in qualche modo, facendo le debite proporzioni ed emendato dalla presunzione e dall’arroganza, ritagliato da Ettore Scola su Giovanna Ralli, figlia di Aldo Fabrizi, innamorata di Vittorio Gassman, in C’eravamo tanti amati.

E c’è anche, sacrosanto, il desiderio del finanziatore di vedersi tornare indietro, magari anche con qualche banconota in più, il denaro investito nella produzione. Ovviamente, come in ogni rapporto, è il buon senso, è la giusta misura la cifra che va ricercata. Ci sono artisti che hanno portato alla bancarotta produttori che li hanno seguiti ciecamente, così come ci sono tanti produttori che hanno salvato, anche dal punto di vista artistico e non solo commerciale, produzioni che altrimenti si sarebbero andate a schiantare. E, va da sé, esistono poi intese magicamente perfette tra artista e produttore. Come, ad esempio, è stata quella tra Nanni Moretti e Angelo Barbagallo.

Resta una domanda: che cosa sarebbe rimasto di Habemus Papam se Nanni Moretti avesse poi adottato un finale payingoff? 

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