Era il marzo del 2009. La Chiesa in subbuglio, il Papa nel mirino dei media di tutto il mondo dopo la decisione di revocare la scomunica a quattro vescovi lefebvriani tra i quali, si scoperse dopo, c’era anche un negazionista della Shoah. Benedetto XVI scrisse una lettera per spiegare i motivi del suo gesto e, quasi tra le righe, tracciò la sua diagnosi sull’attuale condizione della Chiesa e del Cristianesimo, soprattutto in Occidente: «Oggi, in vaste zone della terra, la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento». E ancora: «Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini».
Una diagnosi drammatica. All’epoca non trovò molta eco ma contiene tutto il programma, se così si può dire, del pontificato ratzingeriano. La Chiesa è in crisi. Lo dicono da tempo i media, lo ripetono i custodi del tempio, ne sono convinti molti fedeli. Sì, ma che crisi è? Di organizzazione ecclesiastica o piuttosto una crisi di fede e delle ragioni del credere? La seconda, per Benedetto XVI, che parlando alla Curia romana nel Natale 2011 spiegherà: «Il nocciolo della crisi della Chiesa in Europa è la crisi della fede. Se a essa non troviamo una risposta, se la fede non riprende vitalità, diventando una profonda convinzione e una forza reale grazie all’incontro con Gesù Cristo, tutte le altre riforme rimarranno inefficaci».
I detrattori del Papa, l’arcipelago di teologi progressisti, da Hans Kung ai movimenti post teologia della liberazione, in fondo si sarebbero accontentati di molto meno: qualche riforma, aperture qua e là sui temi eticamente sensibili, maggiore democrazia nelle decisioni, più spazio a donne e laici e i problemi della Chiesa, sostenevano, sarebbero tutti risolti. Ratzinger, invece, no. La crisi, sosteneva, almeno in Occidente, è più profonda. Fin dal primo momento ha tenuto ben chiaro quale sarebbe dovuto essere il suo ruolo: il custode di una Verità che non è sua, che gli era solo stata affidata e che a tutti i costi doveva difendere. «Tu, conferma nella fede i tuoi fratelli», era l’esortazione di Gesù a Pietro nel Cenacolo. La Chiesa, intesa come istituzione e organizzazione burocratica, non è, come ha giustamente detto Vittorio Messori, che un mezzo, spesso opaco e sempre riformabile, per l’unico fine: far scoprire all’uomo di ogni tempo la “perla preziosa” della fede, dell’incontro personale con Gesù nel mistero dei Sacramenti, a cominciare dall’Eucaristia.
Non è un caso che Benedetto XVI le cose più importanti – più delle encicliche e dei discorsi ufficiali come quello di Ratisbona o al Bundestag tedesco – le abbia pronunciate durante le omelie, vicino a quel Cristo annunciato come vivo e presente nel mistero del pane spezzato. Un giorno, forse, sarà ricordato come straordinario omileta al pari di San Leone Magno. Tutte le decisioni di natura ecclesiastica assunte da Papa Benedetto XVI se viste fuori da questa prospettiva rischiano di apparire come atti reazionari o, peggio, nostalgici. Più dovuti che meditati.
Ha chiuso con le messe show ridotte banalmente ad abbracci di pace e assemblee solidali; con il Motu proprio Summorum Pontificum del 2007 ha liberalizzato la messa in latino dando la possibilità, ai preti che lo desiderano, di celebrarla nell’antica lingua; alle Giornate mondiali della Gioventù, tra milioni di persone, ha introdotto l’adorazione eucaristica comunitaria; il primo Sinodo, convocato nel 2005, lo dedicò proprio all’Eucaristia. In ogni viaggio pastorale si è riservato un incontro con i sacerdoti. Ha messo al centro la liturgia perché, diceva, è l’unico momento in cui ognuno può entrare in contatto con Dio in un mondo che anestetizza e banalizza ogni possibilità d’incontro con Lui.
Ha sottratto tempo ed energie ad altri impegni per dedicarsi al completamento dell’opera sulla storicità dei Vangeli non per manie da intellettuale ma perché la figura storica di Cristo oggi è messa in dubbio anche all’interno della Chiesa stessa.
Ai clericali che gli “rimproveravano” – sì, ci sono stati anche quelli, soprattutto all’interno del Vaticano – di essere troppo duro con la pedofilia nel clero, evidenziandola continuamente agli occhi del mondo, replicava che anche la penitenza per la Chiesa è grazia che purifica e salva. Ha lanciato l’idea di un “Cortile dei Gentili” per porre Dio, il grande sconosciuto, al centro del dibattito pubblico; poi ha istituito, nel 2010, un dicastero ad hoc per la promozione della nuova evangelizzazione con il fine di combattere “l’eclissi di Dio” nei Paesi di antica tradizione cristiana, divenuti indifferenti, se non ostili, alla sua Parola.
L’11 ottobre del 2011, con una lettera apostolica, ha proclamato l’Anno della Fede che si concluderà nel novembre 2013. Il Papa lascia nel bel mezzo di questo tempo speciale. E lascia come ha cominciato. «Adulta non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo», aveva detto nel 2005 prima di entrare in Conclave, «è quest’amicizia che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità». Sarà stata questa profonda amicizia a suggerirgli di dimettersi rimettendo la Barca di Pietro nelle mani del suo unico vero Custode.