INVESTIMENTI E CRESCITA
Una recessione che sembra non placarsi fa da sottofondo al coro di voci che richiedono più investimenti per stimolare la crescita e favorire l’occupazione. Lo stesso coro lancia l’allarme, non soltanto sugli alti costi di rifinanziamento delle imprese italiane, ma sul credit crunch che queste si trovano a fronteggiare.
Nessuno nega che l’Italia abbia disperatamente bisogno di crescere, ma un’analisi dei dati su investimenti e produttività del capitale suggerisce che maggiori investimenti non risolveranno il problema della bassa crescita in Italia. Eccone la ragione.
La mancanza di investimenti non sembra essere stata la causa della pessima performance dell’Italia in termini di crescita economica nel periodo prima della crisi. Durante il decennio 1999-2008 il tasso di investimento italiano medio in percentuale del Pil è stato del 20,8 per cento contro una media europea di 20,9 e ben al di sopra del tasso tedesco 18,9. Il vero problema dell’Italia è la scarsa produttività del capitale. È per questo che un livello di spesa in investimenti abbastanza alto non si traduce in crescita economica.
L’indicatore di efficienza marginale del capitale (cioè l’incremento di valore aggiunto prodotto per unità di investimento), come misurato dalla Commissione europea, mette l’Italia come fanalino di coda, dietro anche al Portogallo, sia quando consideriamo il periodo pre-crisi che l’intero periodo di esistenza dell’unione monetaria.
Questi risultati sono confermati anche quando si considerano misure alternative di efficienza marginale del capitale. In particolare, il rapporto tra incremento del valore aggiunto (aggiustato per la capacità operativa utilizzata) nel periodo 1999-2008 e l’investimento in produzione industriale (misurata come manifatturiero e costruzioni non residenziali) cumulato sullo stesso periodo genera un graduatoria molto simile, con l’Italia di nuovo in coda (sebbene i dati sul valore aggiunto possano parzialmente essere influenzati da ‘mis-reporting’ indotto da ragioni fiscali, l’indicatore riportato nella figura 1 dovrebbe esserne immune).
Come mostra la tabella 1 (che riporta i risultati per la Germania e l’Italia), il risultato peggiora ancora se si include il periodo post-crisi. Il rendimento nominale medio nel periodo 1999-2011 di investire in produzione industriale in Italia è risultato praticamente zero, il che significa che il rendimento reale è stato fortemente negativo. Dopo l’inizio della crisi finanziaria il tasso di investimento è diminuito in Italia, ma rimane sempre più alto di quello tedesco, con investimenti lordi fissi uguali a più del 19 per cento del Pil per l’Italia, contro il 18,6 per cento del Pil per la Germania. Questo indica che la mancanza di investimento non può essere la ragione di un potenziale di crescita molto più basso.
LE RIFORME NECESSARIE
Il messaggio associato a questi dati pone un problema molto serio in termini di implicazioni di politica economica nel quadro del corrente dibattito in Italia. I dati per se rappresentano un invito ad applicare maggiore cautela nel fare appello indiscriminato e incondizionato a più investimenti e più credito alle imprese. Le imprese hanno naturalmente bisogno di credito per il circolante e ogni singola azienda intraprende soltanto investimenti da cui si aspetta un rendimento più alto del costo del capitale. Ma rimane il fatto che la contabilità nazionale ci dice che nell’aggregato il risultato delle scelte di investimento è stato scarso. Stimolare più investimenti senza cambiare il sistema finanziario che guida le scelte dei progetti può soltanto aumentare lo spreco.
Nel dibattito sulla crescita si parla moltissimo della necessità di liberalizzazioni, sia nei mercati dei beni che del lavoro. Il recente lavoro del Fmi che illustra i benefici potenziali delle riforme finora annunciate ne offre l’esempio più recente. Ma sorprende il silenzio assordante sulla questione del mercato dei capitali dove si annidano inefficienze ancora più macroscopiche.
Senza un riordino in profondità del sistema bancario la crescita non tornerà. Preoccupa l’assenza di un dibattito su questo problema.
*Daniel Gros: Daniel Gros si è laureato in economia presso l’Università “La Sapienza” di Roma e ha conseguito il Ph.D in economics presso l’Università di Chicago. Attualmente è il presidente del Centre for European Policy Studies (Ceps) di Bruxelles. I suoi principali campi di ricerca sono: l’Unione Monetaria Europea, la Politica Macroeconomica e le Economie in Transizione.