Referendum sull’euro, divieto di ripagare una parte degli interessi sul debito, fuori la politica dalle banche, abolizione dei monopoli di Stato. Sono i punti principali, alcuni suicidi, della Grillonomics di cui i 54 senatori e 108 parlamentari del M5S si faranno portavoce nella prossima legislatura dopo il clamoroso risultato uscito dalle urne. Una responsabilità da far tremare i polsi, tanto nei confronti dei propri elettori quanto rispetto alla stabilità dell’Europa, che ieri ha professato fiducia sull’Italia per bocca della Commissione. Le proposte economiche del primo partito italiano alla Camera, come ha sostenuto due giorni fa lo stesso comico genovese in un’intervista all’emittente finanziaria americana, sono state scritte da Joseph Stigliz, economista premio Nobel nel 2001 assieme a Michael Spence per il contributo alla teoria delle asimmetrie informative.
Citatissimo sul blog di Beppe Grillo, il suo ultimo libro, Il prezzo della disuguaglianza, che propone una ricetta per la crescita economica imperniata su tre elementi: tassazione ai più ricchi, reddito di cittadinanza, e regole stringenti per la finanza affinché «non sia più vantaggioso speculare che lavorare». Altrettanto presente nei post di Grillo Jeremy Rifkin, economista Usa teorico della diversificazione delle fonti energetiche per combattere il cambiamento climatico basata sull’estrazione dell’idrogeno. Un altro Nobel ascoltato dal Movimento 5 Stelle è Amartya Sen, che ha scoperto come dal ’37 a oggi non ci sia carestia che non sia stata prodotta dall’uomo, per sostenere una più equa distribuzione – non produzione – del cibo, e dunque delle risorse, nel mondo. Lo spin doctor economico di Beppe Grillo è invece Loretta Napoleoni, lecturer a Cambridge autodefinitasi “tra i massimi esperti mondiali in terrorismo”, chiamata come consulente – a titolo gratuito, precisa lei – a Parma per risolvere la grana del debito. Una Naomi Klein in salsa tricolore che nel suo ultimo lavoro, Democrazia Vendesi (Rizzoli 2013), si è convertita alla soluzione tiepida dell’euro a due velocità dopo aver passato gli ultimi due anni a battere sul ritorno alla lira e sulla via islandese al problema del debito italiano.
Definire conflittuale il rapporto dei grillini con gli istituti di credito è un eufemismo. «Nazionalizziamo le banche!», gridava il 15 marzo di un anno fa sul suo blog, scrivendo: «Le banche devono ritornare al servizio dello sviluppo e dello Stato. Dalla privatizzazione delle grandi banche voluta da Prodi negli anni ‘90, queste si sono allontanate dal loro compito. Sono mostri in libertà. Vanno ri-nazionalizzate». Ancora, 15 giorni dopo: «Forse è il caso di nazionalizzare le banche», denunciava in riferimento ai miliardi prestati dalla Bce per calmierare i rendimenti dei titoli di Stato invece di finanziare famiglie e imprese.
Per avere una rappresentazione plastica delle idee di Grillo sulle banche basta leggersi il verbale del suo intervento nel corso dell’ultima assemblea degli azionisti del Monte dei Paschi: «Quando non si hanno i concetti si parla del mercato, ma chi è il mercato? Il mercato che gioisce? Il mercato che resta sbigottito? Che perde? Il mercato sono i soliti squali il mercato, che entrano nelle spa, nelle società, e parliamo di Caltagirone, Gnutti, sono sempre gli stessi. Questi entrano, investono e vogliono i dividendi, per dare i dividendi questi signori hanno disintegrato una delle più belle banche del mondo».
Agli occhi degli investitori come JP Morgan, la banca Usa che un paio di giorni fa ha pubblicato un report per interpretare la “grillonomics”, ciò che spaventa di più è il referendum sull’euro. Sempre nell’intervista alla Cnbc, l’ultima prima dell’appuntamento finale di venerdì scorso in piazza San Giovanni, sul tema Grillo aveva specificato: «Non sono antieuropeista, sono per un’Europa diversa, questa ha fallito facendo una moneta unica con economie diverse quindi ha portato al dissesto molti Paesi […] qui il problema non è l’euro o meno». Ieri mattina, in una nota, Credit Suisse riteneva che, nell’eventualità di un accordo tra Grillo e il Pd, «la reazione dei mercati potrebbe essere negativa, quantomeno all’inizio, date le posizioni anti europeiste e anti establishment del M5S. In ogni caso, ci potrebbe essere una convergenza su molto punti e una collaborazione tra il M5S e il centrosinistra su specifici temi, soprattutto a livello locale». Uno scenario che appare improbabile, quantomeno alla luce delle esternazioni di ieri del comico genovese, rispetto all’apertura di Bersani e ai suggerimenti di Dario Fo, proposto da Grillo al Quirinale.
L’idea del reddito di cittadinanza, nell’ottica di dare sostegno finanziario a chi è stato più colpito dalla crisi, si rifà invece alla raccomandazione espressa dalla Commissione europea nel 2008. Già attiva in Francia, Germania, Gran Bretagna, Danimarca e Svezia, in Italia il welfare sociale è stato introdotto soltanto in alcune Regioni: Friuli Venezia Giulia, che l’ha abrogato nel 2003, Basilicata, Campania, Valle d’Aosta, Trento, Bolzano, Puglia e Lazio. Un modo, quello di Grillo, per neutralizzare le distorsioni delle politiche di austerity imposte dal governo tecnico per mettere in sicurezza il debito italiano nei dodici mesi precedenti. Un successo che, come ha scritto l’economista Paul Krugman nel suo blog sul New York Times, testimonia ancora una volta il fallimento dell’approccio alla crisi dell’Ue e del Fmi.
C’è invece un punto che – oltre all’euroscetticismo – avvicina non poco gli acerrrimi nemici Berlusconi e Grillo: la detassazione della piccola e media impresa. Una posizione che Grillo ha voluto esprimere “da seduto” in un’incontro a Treviso con gli imprenditori veneti – capitanati dal presidente di Permasteelisa, Massimiliano Colomban, ora alla guida della Confapri – assieme a Gianroberto Casaleggio. Al paròn della Marca è piaciuta non solo la defiscalizzazione degli investimenti, ma anche l’obbligatorietà di un’esperienza in azienda nel percorso di formazione degli studenti. Tanto che il Movimento 5 Stelle in Veneto è risultato primo partito con il 25,6% delle preferenze al Senato e al 27,5% per la Camera.
Comune invece alle posizioni di Fermare il Declino e per certi versi della Fisac, il braccio operativo della Cgil nel settore finanzario, c’è un punto che è passato inosservato ai più, ma va a toccare la carne viva dei risparmiatori traditi: l’introduzione della «responsabilità degli istituti finanziari sui prodotti proposti con una compartecipazione alle eventuali perdite». Se il tetto alle stock option e i limiti agli stipendi dei manager delle società quotate appaiono difficilmente realizzabili a breve, così come il divieto di incroci azionari tra sistema bancario e industriale, la proposta punta il dito sulla vexata quaestio delle asimmetrie informative, mai affrontate davvero dalla Consob di Giuseppe Vegas. Sulla stessa lunghezza d’onda l’introduzione della class action, che a dire il vero già c’è ma è uno strumento dai contorni ancora troppo incerti rispetto ad un’azione di responsabilità collettiva nei confronti di uno o più amministratori.
Tuttavia, è proprio nei confronti dei risparmiatori i grillini segnano un clamoroso autogoal. Non pagare una parte degli interessi sul debito, infatti, significa – almeno in teoria – dire ai cittadini di rinunciare al rendimento dei loro titoli di Stato. Il 63% del debito italiano (dati Bce 2012) è nel portafoglio degli italiani. Se Grillo avesse fatto un simile annuncio in tv, riflette ridendo un trader di una primaria banca italiana, «avrebbe preso il 10%». In questo senso, il primo partito italiano non può permettersi di mandare a vaffa i piccoli risparmiatori/cittadini/elettori che cerca di proteggere.