«Angela Merkel non vuole il Partito democratico al governo». Le parole sono quelle del Cancelliere tedesco, ma chi le riporta è il presidente del Consiglio Mario Monti. Non si è fatta attendere la risposta di Pier Luigi Bersani: «Non so se è un problema della Merkel o di Monti». Ma è giunta anche la smentita del portavoce del governo tedesco, Steffen Seibert, che risponde a un tweet di Filippo Sensi, vicedirettore di Europa. E il giallo monta. Quello che è certo è che le aspettative per il voto italiano sono diventate spasmodiche. I giornali tedeschi, come Der Spiegel, parlano di voto epocale per il futuro dell’euro. Lo stesso dicono le banche d’investimento, che vorrebbero segnali di continuità con il governo tecnico guidato dall’ex Commissario Ue.
Non sarebbe stata una prima volta assoluta per Berlino. Negli ultimi mesi è intervenuta spesso negli affari di un altro Paese dell’eurozona. Lo ha fatto con la Grecia, lo ha fatto con la Francia, lo ha fatto con la Spagna. Normale? Non proprio. Ma data la posizione di leadership che la Germania riveste all’interno della zona euro, è chiaro che guardi a ogni possibile rischio per la stabilità di quest’area. Se dal lato dei mercati finanziari vigila la Banca centrale europea, che ha pronto il bazooka chiamato Outright monetary transaction (Omt), sul versante politico c’è Berlino che controlla che non ci siano scossoni sulla strada che sta conducendo l’eurozona fuori dalla più grande crisi della sua storia.
L’incertezza era ed è elevata. Con il blackout elettorale, addio sondaggi. Ma i rumor ci sono lo stesso. E vedono una grande risalita del Popolo della Libertà e dall’altro un consolidamento, se non di più, della posizione del Movimento 5 Stelle come terza forza politica del Paese. Uno scenario che riduce i margini di governabilità dell’Italia. Se alla Camera è facile che vinca il Pd, al Senato è possibile che la frammentazione sia più netta, data la legge elettorale vigente. Se così fosse, ci sarebbe diverse soluzioni. La prima è un’alleanza fra la coalizione di Monti e quella di Bersani, con l’incognita data da Sinistra, ecologia e libertà (Sel), che ha già detto di essere «incompatibile» con Scelta Civica. Meglio allora la seconda opzione, che deve un governo di larghe intese senza Sel. In questo caso, e a patto che il M5S non intercetti la maggior parte dei voti degli indecisi, le riforme potrebbero essere portate avanti anche solo dal tandem Bersani-Monti.
Basterebbe questo per tranquillizzare i mercati finanziari? Difficile dirlo. L’ipotesi più congeniale, spiega anche la banca anglo-asiatica HSBC, è una grande coalizione capace di portare avanti il processo di riforme messe in cantiere dal governo Monti. In altre parole, una sorta di versione 2.0 del governo tecnico. Possibilmente con meno tasse dirette e indirette e più stimoli per la crescita economica, il vero gap strutturale che l’Italia ha nei confronti degli altri Paesi dell’eurozona. Lo ha ricordato oggi anche l’agenzia di rating Standard & Poor’s, che ha posto l’attenzione sulla mancanza di crescita dell’Italia, piuttosto che il perdurare dell’austerity.
Lo stesso vorrebbero gli altri investitori internazionali. Cioè coloro i quali comprano il debito pubblico italiano. Uno di questi è Schroders, che vede quasi sicura la vittoria di Bersani, seppure con l’incognita del Senato, che potrebbe finire al Pdl. In quel caso, aumenterebbe il rischio di un rallentamento del processo di riforme strutturali, vedi liberalizzazioni o razionalizzazione della Pubblica amministrazione, che occorrono all’Italia per tornare competitiva. Tuttavia, spiega Schroders, la pressione dei mercati finanziari, della Ue e della Bce potrebbe essere cruciale per far cambiare idea al partito di Silvio Berlusconi.
Analoga è la visione di Morgan Stanley. La banca americana vede nella risalita di Berlusconi e nell’affermazione di Grillo un serio rischio per la stabilità dell’Italia e della zona euro. Il motivo è semplice: l’eventuale ritardo nella rinnovamento del mercato del lavoro, l’altro tallone d’Achille del Paese dopo la mancanza di crescita economica. Tuttavia, per Morgan Stanley è facile che si arrivi a un accordo finale fra Monti e Bersani. Anche in questo caso la ragione è di facile intuizione. Un ruolo attivo di Monti nel prossimo governo (ministro delle Finanze) potrebbe essere visto dagli investitori come un segnale di continuità con l’esecutivo tecnico che ha contraddistinto il 2012.
I teorici del complotto sono serviti. Anche senza l’endorsement di Angela Merkel a Monti, ci sono quelli delle banche d’investimento. Insomma, la linea del prossimo governo è dettata. Ed è difficile non condividerla, specie considerando il filo del rasoio su cui sta ballando l’Italia: debito prossimo ai 2.000 miliardi di euro, recessione economica, competitività in calo e mercato del lavoro ancora immobile. La strada da fare è ancora lunga. E pure in salita.