L’Italia al femminile che la politica non può ignorare

L’Italia al femminile che la politica non può ignorare

Immaginiamo una gara di corsa. Se siete una donna, in Italia sarete costrette a partire in ritardo. Su un percorso di un chilometro, quando l’avversario uomo ha già tagliato il traguardo, dovrete percorrere ancora 300 metri. A ostacoli, però, e con qualche buca qua e là. Quello appena descritto si chiama “chilometro rosa”, un indicatore sviluppato dalle ricercatrici Red-Sintesi per misurare la distanza che separa donne e uomini in Italia. Tanti metri da percorrere ancora in tutti i settori. I principali ostacoli sono la carenza di asili nido, una flessibilità lavorativa che penalizza le donne e una scarsa presenza nelle stanze dei bottoni. Il risultato è che il tasso di inattività femminile (cioè quelle donne che non cercano attivamente lavoro ma sono subito disponibili a lavorare) è quasi quattro volte sopra la media europea. Sintomo di un forte scoraggiamento, spiegano dall’Istat. Ma quali sono i numeri della “distanza” italiana?

Partiamo dal tasso di occupazione, che negli ultimi quindici anni è sì aumentato arrivando quasi al 47% (percentuale che al Sud scende al 30%), ma che resta comunque inferiore di circa 12 punti rispetto a quello medio dell’Unione europea, oltre che lontano dall’obiettivo del 60% della strategia di Lisbona del 2002. Rispetto agli italiani uomini, però, le italiane firmano un numero maggiore di contratti di lavoro atipici e ricevono stipendi inferiori del 20-30 per cento. Le cose si fanno ancora più difficili con l’arrivo dei figli: meno cinque punti di occupazione con il primo figlio, meno dieci con due figli, meno 23 quando i pargoli sono tre. Per capire l’unicità del caso italiano, basta fare un confronto con la Francia, dove le differenze tra tassi di occupazione delle donne senza figli, con un figlio e con due figli sono limitate, e lo scarto si evidenzia solo a partire dal terzo figlio. Per il tasso di occupazione, invece, dietro di noi in Europa c’è solo Malta. 

Cosa serve per permettere alle donne con figli di continuare a lavorare? La risposta sembrerebbe solo una: contratti di lavoro più flessibili e soprattutto più servizi. Ma alla base del problema c’è la condivisione del lavoro domestico, che in Italia è in gran parte a carico della donna. Nelle coppie di occupati tra i 25 e i 44 anni, in un giorno medio settimanale la donna lavora in totale (lavoro retribuito e familiare) 53 minuti in più del suo partner (9 ore e otto minuti delle donne contro le 8 ore e 15 degli uomini). Il divario cresce in presenza di figli, con un divario di 1 ora e due minuti al giorno. E alla fine il 71,9% delle ore dedicate al lavoro familiare (lavoro domestico, di cura e di acquisti di beni e servizi) dalle coppie di occupati è a carico delle donne. 

La fame di ritagli di tempo da dedicare a pannolini, viaggi verso le lezioni di danza o di nuoto e carico e scarico della lavatrice negli anni ha fatto diventare il lavoro part time – come scrive Chiara Valentini nel suo O i figli o il lavoro – un oggetto del desiderio per le neomamme. Nel nostro Paese il tempo parziale è stato considerato a lungo un modo di lavorare di serie B, pagato poco e che impediva di fare carriera. Con l’inizio del nuovo secolo, invece, ha spiccato il volo. Dal 2002 al 2008 la quota è passata dal 16,6 al 28 per cento. Nel 2010 ha superato il 30 per cento, diventando il lavoro femminile per eccellenza. Gli uomini col part time sono invece solo il 5 per cento, ma guadagnano il 20 per cento in più delle colleghe.

Chiedere un part time in Italia, però, fa correre rischi, può mettere in cattiva luce e può aprire la strada a demansionamenti. E nella maggior parte dei casi non permette di fare carriera. Una ricerca dell’Osservatorio sul Diversity Management della SDA Bocconi mostra che nelle imprese italiane la flessibilità finisce per penalizzare i lavoratori (in gran parte donne nel caso del part time) che ne fanno uso. I risultati mostrano che la valutazione di fine anno dei lavoratori part time è inferiore a quella dei full time. La penalizzazione è ancora più evidente nei passaggi da un livello contrattuale all’altro: l’88,3% dei lavoratori part time non ha avuto alcuna promozione nell’arco dei quattro anni considerati dalla ricerca (2007-2010) contro il 72,7% dei full time. Con conseguenze sulla assenza di incrementi salariali.

E poi bisogna distinguere tra part time “buono”, quello chiesto dalle donne per esigenze personali, e part time “cattivo”, quello involontario, cioè accettato controvoglia in mancanza di un lavoro a tempo pieno. Secondo gli ultimi dati Ocse, in Italia nel 2011 i part time involontari erano 1 milione 557 mila, di cui 1 milione 157 mila firmati da donne: un milione in più della Danimarca (ferma a quota 41mila). Tempo parziale cattivo che – come riporta l’ultimo rapporto Ocse “The impact of the economic crisis on the situation of women and men and on gender equality policies” – è aumentato con la crisi economica, interessando uomini e donne in maniera diversa. Dal 2007 al 2010 questo tipo di contratto è cresciuto in Europa di 1,3 milioni per le donne contro i 773mila per gli uomini. «Più che negli Stati Uniti, il part time è stato usato in Europa per evitare l’opzione più difficile del licenziamento», si legge. Le percentuali più alte si trovano nei Paesi mediterranei, Italia compresa. Sul lato opposto, i Paesi del Nord Europa.

Se si volesse costruire un termometro del precariato, le donne risulterebbero quindi più avanti degli uomini: il 35,2% sono dipendenti a termine o collaboratrici contro il 27,6 per cento degli uomini. Nel biennio 2008-2010 a essere diminuita è soprattutto l’occupazione femminile qualificata (meno 270mila), con un aumento di quella non qualificata (più 218mila). Le giovani (18-29 anni), in particolare, vivono una situazione più critica di quella dei loro coetanei. Il 52% delle laureate svolge un lavoro per il quale è richiesto un titolo di studio inferiore a quello posseduto (41,7% per gli uomini). E guadagnano in media anche il 20% in meno dei loro colleghi maschi. 

Non solo, mentre negli altri paesi europei il tasso di occupazione delle mamme diminuisce nei primi tre anni del piccolo per poi ricominciare a crescere, l’Italia è l’unico posto dove continua a calare. Tra chi diventa mamma il 30% interrompe il lavoro per motivi familiari (contro il 3% dei padri). Circa 800mila madri nel 2011 hanno dichiarato di essere state licenziate, o messe in condizione di doversi dimettere nel corso della loro vita lavorativa (le cosiddette dimissioni in bianco) a causa di una gravidanza. Tra quelle costrette a lasciare il lavoro, solo quattro su dieci hanno poi ripreso l’attività lavorativa. La situazione peggiora per le donne immigrate. Più della metà svolge un lavoro non qualificato (58% vs. 9% delle italiane). Il 40,1% svolge un lavoro domestico presso le famiglie e oltre una su due ha un lavoro per il quale è richiesto un titolo di studio inferiore a quello posseduto (51,1% vs. 19,8%). Impieghi che ovviamente comportano una bassa paga mensile: 788 euro contro i 1.131 euro delle italiane.

Ma quando mamme e papà lavorano chi si occupa dei figli? Come scrive Maurizio Ferrera nel suo Fattore D, questo è il nodo centrale della conciliazione, la sfida più complicata per molti genitori. Una possibile soluzione sono i nonni: per molte coppie italiane i nonni (soprattutto materni) sono oggi un vero e proprio «ammortizzatore sociale». L’alternativa è l’asilo. Ma c’è posto? Quanto costa? Quanto è lontano? E che orari fa? In Italia non siamo messi male sul fronte delle scuole per l’infanzia per i bambini dai tre ai sei anni. Anzi, in questo caso i nostri tassi di copertura sono fra i più alti d’Europa, intorno al 90 per cento. Il grosso buco esiste prima dei tre anni. In base alla media nazionale, solo l’11% dei bambini va al nido, ventuno punti in meno rispetto ai numeri raccomandati dalla strategia di Lisbona. 

Con la legge 1044/1971, il governo italiano aveva stabilito un piano quinquennale per l’istituzione di almeno 3.800 asili nido comunali da completarsi entro il 1976. Secondo i dati più recenti forniti dal Ministero dell’Interno (2010), il numero degli asili nido comunali ammonta a 3.623, con una disponibilità di 146.918 posti. E sono passati 37 anni dal ’76. In media il 23,5% dei richiedenti un posto rimane in lista d’attesa. La regione che spicca per il più elevato numero di nidi è la Lombardia con 794 nidi e 28.561 posti disponibili. Seguono l’Emilia Romagna (611 nidi e 25.592 posti), la Toscana (437 nidi e 15.380 posti), il Lazio (350 nidi e 19.876 posti) e il Piemonte (283 nidi e 12.701 posti).

Nonostante la copertura media vari dal Centro-Nord (15%) al Sud (2%), gli asili nido nel nostro Paese sono presenti soprattutto nelle città e vengono ancora percepiti come “ultima spiaggia” per i genitori che lavorano. Il confronto con il resto d’Europa ci vede ancora una volta in coda. In testa per la diffusione di servizi per la prima infanzia si piazzano Danimarca, Svezia e Islanda, con una copertura di posti del 50% dei bambini di età tra 0 e 3 anni, seguiti da Finlandia, Paesi Bassi, Francia, Slovenia, Belgio, Regno Unito e Portogallo. L’Italia si trova davanti solo a Paesi come Polonia e Repubblica Ceca (che hanno valori inferiori al 3%). E il tempo pieno (9 ore al giorno) viene garantito dall’85% degli istituti, mentre in ben 17 capoluoghi viene fornito solo il servizio ridotto (6 ore al giorno).

Altra questione sono gli orari, che quasi mai si conciliano con quelli degli uffici. Il suono dellacampanella da noi è ancora molto rigido. E gli orari sono troppo brevi, sia lungo l’arco della giornata che nel corso dell’anno. I nidi aperti ventiquattr’ore al giorno per ora sono solo una conquista scandinava che l’italia guarda col binocolo. E proprio la rigidità degli orari viene indicata nei sondaggi come un ostacolo per le coppie (e per le donne) che può avere anche un peso maggiore di quello dei costi finanziari. Che sono l’altra nota dolente. Come indica il dossier asili 2012 di Cittadinanzattiva, mediamente una famiglia italiana spende 302 euro al mese per mandare il proprio bambino all’asilo nido comunale. Quelli pubblici prevedono rette differenziate in base al reddito: il prezzo viene determinato nel 75% dei casi in base all’Isee (Indicatore situazione economica equivalente), nel 20% dei casi in base al reddito familiare e nel restante 5% la retta è unica. Le famiglie con redditi molto bassi possono non pagare alcuna retta, ma quelle con redditi medi arrivano anche a sborsare ogni mese fino a 500 euro. La regione mediamente più economica è la Calabria (114 euro) e quella più costosa è la Lombardia (403 euro). Solo nel 48% dei casi la retta mensile copre anche la spesa per i pasti e per i pannolini. In assenza di quelli pubblici, ci sono i privati, che possono chiedere rette fra i 500 e i 1.000 euro o più al mese, cifra che non si allontana dallo stipendio di una baby-sitter o di una tata. 

Come stupirci – si chiede Ferrera – se tante mamme rinunciano a tornare al lavoro o a cercarne uno, almeno fino a che i loro figli non raggiungono l’età per entrare nella scuola materna (che invece è quasi gratuita)? «Non che la scuola materna risolva i problemi di conciliazione: i suoi orari sono ancora meno flessibili di quelli dei nidi», scrive. «Ma almeno la mamma che ha un’occupazione non sarà costretta a spendere tutto il suo stipendio per l’assistenza ai figli durante l’orario di lavoro».

La spesa italiana in servizi per la famiglia equivale all’1,5% del pil, sotto il 2,3% della media Ocse. Il nostro Paese è in coda anche nell’offerta di servizi agli anziani, anche questi spesso appannaggio delle donne: rispetto a quella dei paesi nord e centroeuropei, la spesa per gli over 65 in Italia è pari a un terzo (Scandinavia) o al massimo alla metà (Francia o Germania). 

Questo accade nel Paese del “modello Reggio Emilia”, una città che ha fatto scuola non solo in Italia ma nel mondo intero per i suoi servizi alla prima infanzia. La tradizione reggiana nasce negli anni Quaranta ed è collegata al nome di loris Malaguzzi, un giornalista e pedagogista che elaborò un metodo educativo innovativo basato sulla stimolazione della fantasia e della creatività dei bambini. Reggio Emilia aprì la prima scuola per l’infanzia ispirata al metodo Malaguzzi nel 1963 e il primo nido nel 1971. Oggi le strutture in città sono più di 80, gestite da Comune, Stato, cooperative e dalla Federazione scuole materne cattoliche: più del 40% dei bimbi sotto i tre anni frequenta il nido e l’86,7% dei bambini dai 3 ai 6 anni è iscritto alla materna: percentuali quasi scandinave. Non a caso dal 1993 esiste a Stoccolma un Reggio Emilia Institutet. Ma a quanto pare, svedesi a parte, pochi in Italia hanno pensato di studiare e imitare il modello emiliano.  

Davanti a questi numeri, sembra naturale che rispetto a molti Paesi europei le donne italiane risultano più in difficoltà a conciliare figli e lavoro. Cosa che comporta spesso il dover scegliere tra avere un lavoro o avere dei figli. Il risultato è un basso tasso di natalità (pari secondo l’Istat nel 2010 a 1,41 figli per donna) e un basso tasso di occupazione femminile. In base ai dati Istat nel 2011 il numero di casalinghe tra i 15 e i 64 anni sfiora quota 5 milioni (4 milioni 879 mila), di cui quasi 800mila under 35. Eppure più del 40% delle donne inattive dichiara che «vorrebbe lavorare». Se si riuscisse a dare un lavoro anche a queste donne avremmo un tasso di occupazione femminile superiore al 70%, come nei paesi nordeuropei.

L’enorme vantaggio dell’occupazione femminile, sostiene Maurizio Ferrera, è che crea altro lavoro. Le famiglie a doppio reddito consumano molti più servizi delle famiglie monoreddito. Per ogni 100 donne che entrano nel mercato del lavoro si possono creare fino a 15 posti aggiuntivi nel settore dei servizi: assistenza all’infanzia e agli anziani, prestazioni per i vari bisogni domestici, ricreazione, ristorazione e così via. Nel 2006 The Economist ha riportato cifre secondo cui nell’ultimo decennio l’incremento dell’occupazione femminile nei paesi sviluppati ha contribuito alla crescita del pil globale più dell’intera economia cinese. Più lavoro per le donne significherebbe più lavoro per tutti. E non è un gioco di parole.  

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