Sarà un caso, ma c’entra sempre lui. Monte dei Paschi, Finmeccanica, Parmalat, Telecom, Fideuram, e l’elenco potrebbe continuare. Procure e finanzieri cercano i proventi delle attività di “intermediazione” poco chiare, e si imbattono in grosse somme scudate. Milioni, talvolta miliardi di euro in viaggio dai paradisi fiscali ai conti degli istituti italiani, che non si sono lasciati sfuggire questa opportunità. La Cassa di risparmio di Rimini, ad esempio – per competenza territoriale – offre dal primo gennaio di quest’anno il conto “Scudo fiscale”.
Lo strumento fu lanciato dall’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti, che nel 2009 assicurava: «I capitali criminali non rientreranno». La prima versione dello scudo risale al 2001, con un’aliquota del 2,5%, e portò allo Stato 1,6 miliardi. Nel 2003 l’esperimento viene replicato, alzando però l’aliquota al 4 per cento e la garanzia dell’anonimato. Gettito di circa 1,9 miliardi. Più elaborato lo scudo ter del 2009, che prevedeva un’aliquota al 5% fino a febbraio 2010, del 6% da febbraio ad aprile, e del 7% da aprile 2010, e fece incassare altri 5,6 miliardi all’erario.
Eppure, a dispetto di quanto si aspettava Tremonti, non sempre i capitali riportati entro i confini nazionali sono frutto di attività lecite. Ieri la procura di Siena ha sequestrato 18 milioni di euro presso la fiduciaria Galvani di Bologna. Soldi che l’ex responsabile dell’area Finanza di Mps, Gianluca Baldassarri, potrebbe aver scudato dall’estero. Pochi giorni fa i pm Antonino Nastasi, Aldo Natalini e Giuseppe Grosso hanno sequestrato presso banche e fiduciarie altri 40 milioni probabilmente scudati. Somme ascrivibili, secondo l’ipotesi degli inquirenti, a Baldassarri, al suo vice, Alessandro Toccafondi, e ad altri funzionari di Mps: la «banda del 5%».
Un altro caso di ricompense scudate in cambio di aiutini negli appalti riguarda Finmeccanica. Nel novembre 2011, nel corso di un colloquio spontaneo con Giancarlo Capaldo, procuratore aggiunto di Roma, l’ex direttore delle relazioni esterne di Finmeccanica, Lorenzo Borgogni, ammise di aver scudato 5,6 milioni di euro precedentemente parcheggiati a Londra. «L’importo complessivo ammonta a 5 milioni e 600 mila euro (somma scudata formalmente da mia moglie e depositata originariamente su un conto di Londra). Quell’importo deriva oltre che da quanto ho già riferito da ulteriori operazioni… nell’anno 2000 aprii un conto bancario in Svizzera… lavoravo in Fincantieri e promossi in Venezia il consorzio Ancv ricevendone un compenso complessivo di 1 milione e 500 mila euro a fronte di una commessa di sei navi da crociera», dichiarò Borgogni ai pm.
Un anno prima della deposizione di Borgogni, l’ufficio antifrode dell’Agenzia delle entrate toscana dichiarava inefficace lo scudo fiscale con cui Alberto Aleotti, numero uno della casa farmaceutica Menarini – e azionista al 4% di Mps – aveva riportato in Italia un miliardo di euro da Panama e Liechtenstein nel 2003. Guadagni frutto dell’aumento artificioso dei prezzi d’acquisto dei principi attivi per i farmaci, orchestrato con l’americana Bristol Myers Squibb. Un trucco sia per abbassare la base imponibile che per ottenere i rimborsi previsti dal ministero della Sanità per alcuni farmaci, soprattutto per la cura delle malattie cardiovascolari. Lo scorso ottobre, i pm Giuseppina Mione, Ettore Squillace Greco e Luca Turco hanno rinviato a giudizio il patron di Menarini assieme ai figli Lucia e Alberto Giovanni per truffa ai danni dello Stato, contestando un danno dal valore di 860 milioni di euro.
Da Madeira, attraverso la Svizzera, arrivavano i 10 milioni rimpatriati nel 2007 da Giovanni Consorte e Ivano Sacchetti, gli ex vertici di Unipol e soci della cassaforte lussemburghese Bell (partecipata da Unipol) di Emilio Gnutti che controllava Telecom all’epoca del passaggio del pacchetto di controllo a Tronchetti Provera. Un’operazione nella quale a Gnutti, spiegarono allora Consorte e Sacchetti, venne risconosciuto un maxi dividendo da 50 miliardi di lire vecchie lire.
Anche l’uomo d’affari Luigi Manieri, il “cavaliere bianco”, cercò di scudare in extremis 3,7 miliardi di euro per salvare Parmalat. È lo stesso Calisto Tanzi a raccontarlo ai pm Antonella Ioffredi e Silvia Cavallari, il 27 dicembre 2003: «Manieri si rivolse al San Paolo Imi chiedendo se poteva versare su una loro fiduciaria, la San Paolo fiduciaria, la somma di 3,7 miliardi di euro. So che il San Paolo rispose che voleva conoscere la provenienza della somma. Ma il Manieri disse che avrebbe fornito l’informazione soltanto se il San Paolo avesse accettato il deposito fiduciario». Una manovra che non andò mai in porto.
La primavera del 2004 106 promotori finanziari di Banca Fideuram finirono indagati dalla procura di Firenze, con l’accusa di riciclaggio, per aver raccolto capitali dei clienti frutto di evasione fiscale, portandoli nella filiale Fideuram Suisse. Per poi scudarli, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, in un secondo momento. Un’indagine simile aveva coinvolto l’olandese Ing. Ironia della sorte, nel 2009 Banca Fideuram finì nel mirino di Exor, la cassaforte degli Agnelli. La controllante, Intesa Sanpaolo, voleva vendere a 2,8 miliardi, ma la famiglia torinese aveva in cassa soltanto un miliardo. Si sarebbe accollata dunque 800 milioni di debiti, mentre l’istituto allora guidato da Corrado Passera sarebbe rimasto azionista al 30 per cento. Il deal saltò anche per via della moral suasion di Mario Draghi, all’epoca governatore della Banca d’Italia. Lo stesso Mario Draghi che oggi, da presidente della Bce, ha respinto con decisione le accuse di non aver vigilato sul Monte dei Paschi.