Perfino nella peggiore crisi economica dal 1929 a oggi, l’elettore medio non si fida degli economisti al governo. Il risultato elettorale della lista Scelta civica guidata da Mario Monti, votata (pare) da meno del 10 per cento degli italiani, è una dimostrazione plastica dell’assunto. Secondo molti osservatori, infatti, l’ex bocconiano avrebbe meritato di più, avendo allontanato l’Italia dal baratro finanziario.
Tuttavia, per capire le radici profonde dello scetticismo elettorale, conviene leggere l’ultima ricerca di Luigi Zingales, appena pubblicata dall’economista dell’Università di Chicago: Economic Experts vs. Average Americans, è il titolo, cioè Esperti economici vs. americani medi. L’editorialista del Sole 24 Ore – che in Italia ha fondato una lista composta da economisti, Fermare il declino (arrivata all’1 per cento), salvo poi abbandonarla denunciando il curriculum ritoccato di Oscar Giannino – ha studiato il fenomeno con Paola Sapienza, della Northwestern University. I due sono stati incuriositi da un episodio dell’anno scorso, quando la radio pubblica statunitense, National Public Radio, convocò economisti di diverse scuole di pensiero e fece scrivere loro un finto programma elettorale. I sondaggi, però, lo bocciarono. Colpa dell’ignoranza dei cittadini? Nient’affatto, questo è il risultato sorprendente cui arriva Zingales.
Confrontando le opinioni di un panel di accademici della blasonata Università di Chicago e quelle di un campione rappresentativo della popolazione americana – su temi come i buoni per la scuola, i sussidi al settore automobilistico e l’efficienza della Pubblica amministrazione – si è scoperto che i due gruppi “in media” dissentono spesso. Non solo: «Gli argomenti più trattati nella letteratura economica, quelli su cui gli economisti concordano maggiormente, sono gli stessi su cui le opinioni degli esperti differiscono maggiormente da quelle degli americani medi».
La diversa preparazione culturale non spiega nulla, tanto che se all’americano medio fornisci informazioni adeguate, e poi gli ripeti la domanda con la premessa che «quasi tutti gli esperti d’economia concordano che…», il suo parere cambia di pochissimo. Esempio: se agli intervistati dici che «quasi tutti gli economisti» sostengono che il Nafta, l’accordo di libero scambio con Canada e Messico, è positivo per gli Stati Uniti, la percentuale di persone che si dicono d’accordo passerà solo dal 46 al 51 per cento del campione. Addirittura, se gli esperti sostengono che l’andamento delle Borse è difficile da prevedere, la percentuale di persone che si dicono d’accordo scende dal 55 al 42 per cento. «Ovvero, dimmi cosa dice un economista e crederò nel contrario», sintetizzava l’economista Gustavo Piga commentando lo studio sul suo blog. Ancora: gli americani osteggiano una tassa sulle emissioni di CO2, preferiscono standard unici per costruire le automobili, e questo nonostante siano consapevoli che i prezzi delle vetture aumenterebbero.
Se l’ignoranza non conta, forse pesa il fatto che gli economisti tendono a interpretare minuziosamente e alla lettera i quesiti posti: essi sono d’accordo per esempio nel dire che il tasso di disoccupazione nel 2010 sarebbe stato più alto se non ci fosse stato lo stimolo fiscale di Barack Obama, ma non concordano sull’idea che i benefici dello stimolo superino i suoi costi. L’americano medio, invece, risponde in maniera simile a entrambe le domande. Soprattutto, però, l’elettore medio arriva a conclusioni diverse perché «non si fida della condizione ceteris paribus cui invece gli economisti fanno affidamento». Un esperto riterrà infatti che una tassazione sulle emissioni di CO2 sia più efficiente di un mix di politiche varie, dando per scontato che l’extra-gettito sarà poi equamente distribuito tra i contribuenti. Il cittadino medio è invece decisamente più scettico su quest’ultima condizione. Secondo gli studi demoscopici, l’uomo qualunque comprende «la logica economica» che è dietro la proposta, ma non crede alla buona volontà o alla capacità del governo di redistribuire equamente i costi della riforma.
Alla luce di tutto questo, per Zingales sono gli economisti a dover modificare certe loro rigidità, altrimenti «dovremmo concludere, come diceva William F. Buckley Jr.: “Preferirei affidare il governo degli Stati Uniti alle prime 400 persone che trovo nell’elenco telefonico di Boston piuttosto che all’insieme dei professori dell’Università di Harvard”». Vale anche per la Bocconi, pare.