Piccole ma buone, le imprese donna resistono alla crisi

LE DONNE

Silvia Garda ha 29 anni e due anni fa ha rinunciato a un contratto a tempo indeterminato in banca. Una pazza, direbbero molti. No: «Sognavo di fare altro. Ho scelto di darmi una possibilità». E così da dipendente si è scoperta “manager dei fornelli”. Facendo della passione di famiglia, la cucina, il suo lavoro. Con “Diciboincibo”, una piccola società che offre lezioni di cucina e cene a domicilio («Se vuoi che sembri preparato tutto da te nessun problema, pochi minuti prima dell’arrivo degli ospiti vado via»). Nel frattempo, tra mestoli e tovaglie, è riuscita anche a diventare mamma di una bambina – che ha prontamente presentato con una foto ai lettori del suo blog di ricette – e a far parte dei global shaper, il gruppo di giovani italiani selezionati dal World Economic Forum per far da guida alle nuove generazioni.

Silvia, l’imprenditrice, è una delle 1,5 milioni di manager donne alla guida di un’azienda italiana. Poche, il 23,5%, se confrontate con i colleghi maschi. Solo un’impresa su quattro. Il resto, uomini.E il più delle volte si tratta di imprese piccole, con dimensioni e fatturato minori rispetto a quelle a conduzione maschile.

«L’investimento iniziale per dare vita a “Diciboincibo” non è stato grande», racconta Silvia. «Mettere su il sito e organizzare i corsi è un lavoro che prevede più che altro costi “personali” di tempo ed energie da investire». In questo momento, «con la bambina appena arrivata, sono ferma. Gli ultimi tempi della gravidanza e i primi dopo la nascita mal si conciliano con un lavoro di questo tipo. Anche perché non ho neanche il tempo di prepararmi una pasta», ride. Ma promette: «Crescendo la bimba e riorganizzando spazi e tempi, conto di ripartire quanto prima».

Le imprese “rosa”, come quella di Silvia, hanno retto meglio alla crisi economica rispetto a quelle maschili. Su 30mila aziende artigiane in meno, solo 593 imprese femminili hanno chiuso i battenti (dati Osservatorio nazionale sul credito Artigiancassa). E secondo l’Osservatorio dell’imprenditoria femminile di Unioncamere, alla fine del 2012 sono addirittura aumentate dello 0,5%, con una crescita superiore a quella del totale delle imprese nazionali (+0,3%). Risultato: 7.298 imprese donna in più. La crescita riguarda tutte le regioni, fatta eccezione per Molise (-1%) e Friuli Venezia Giulia (-0,79%). In testa Lombardia (+1.928 imprese), Lazio (+1.555 imprese) e Toscana (+1.286 imprese).  

«Non possiamo ignorare questi numeri», dice Paola Sansoni, presidente di Cna impresa donna (raggruppamento femminile della Confederazione nazionale dell’artigianato e della piccola e media impresa). «Il nostro Paese ha bisogno di valorizzare questa fetta dell’economia. Dobbiamo dare maggiore spazio per l’avvio e il consolidamento di queste imprese».

L’incidenza di imprenditrici più bassa si registra nelle costruzioni (1,95% contro 98,05%). Le percentuali più alte sono invece nella moda (qui le donne superano addirittura gli uomini, ma di poco) e nel comparto benessere e sanità (46,57% delle donne contro il il 53,43% degli uomini). «Ma la presenza femminile sta crescendo anche nei mestieri che prima erano di totale appannaggio maschile», racconta Maria Fermanelli, vicepresidente di Cna nazionale. Un esempio? «Il presidente nazionale degli autotrasportatori di Rete imprese è una donna e nella regione Toscana per il settore delle costruzioni alla guida c’è una imprenditrice». 

Donne ed economia: un rapporto diverso rispetto ai colleghi uomini. E le imprese femminili hanno caratteristiche specifiche. «La prima è che le donne sono meno proiettate degli uomini verso il rischio. Tendono a usare la propria cerchia personale per evere dei prestiti, anziché affidarsi agli istituti di credito», spiega Sansoni. Cosa che, continua, «ha portato qualche piccola difficoltà in meno alle imprese femminili in questo momento di crisi. Ma non è che anche le donne non abbiano risentito della congiuntura». Gli altri tasselli sono «la maggiore propensione all’innovazione, allo sviluppo e alla ricerca». Ma, ricorda Sansoni, alla guida da vent’anni di un’impresa (Studio immagine) che si occupa di comunicazione e merchandising, «parliamo in percentuali molto alte di microimprese con un basso numero di addetti o addirittura la titolare come unica lavoratrice». Nella maggior parte dei casi si tratta infatti di aziende con un solo addetto e fatturato inferiore ai 20mila euro annui.

Non è il caso di Carla Delfino, 53 anni, alla direzione di tre imprese che insieme fatturano 5 milioni di euro.  La prima pietra Carla, una laurea in storia dell’arte e membro dell’Associazione imprenditrici e donne dirigenti di azienda, l’ha posta in Sicilia, a Siracusa, dove è nata. E poi le altre in giro per l’Italia e nel mondo. «Tutte le aziende hanno il nome Imperial e qualcos’altro», spiega ridendo, «perché mi piace così». La prima, con sedi a Hong Kong e in Cina, fa da buyer per le aziende. «In poche parole», spiega, «se un’azienda vuole 10mila penne a 25 centesimi l’una, noi gliele cerchiamo». Nel 2001, poi, in vista dell’arrivo dell’euro, si accende un’altra lampadina: fabbricare macchine per controllare l’autenticità delle nuove banconote. Di quelle che ora si trovano nei negozi, supermercati e centri commerciali di tutta Italia. Fino a sei mesi fa, quando si è aggiunta la terza “Imperial”. «Poiché tra qualche mese i veleni per topi verranno vietati per legge, ho pensato di arrivare prima sul mercato producendo repellenti naturali che tengono lontani i topi e non li uccidono, senza per giunta disperdere veleni nell’ambiente». «Bisogna seguire il mercato», dice, «non posso continuare a vendere pentole se il mercato vuole orologi digitali». 

Carla Delfino è un ciclone di idee. Ride, scherza, ha la battuta pronta. E aggiunge: «Nel mio percorso non ho mai incontrato difficoltà legate al mio essere donna, ma solo difficoltà legate all’incapacità di molte persone, al di là del sesso. Ti devi sapere comportare. Viaggio da sola da quando avevo 20 anni. Non è che puoi andare in Arabia Saudita e restare tutta scoperta».

Tredici anni fa, nel 1992, l’allora governo di centrosinistra varò la legge 215, “Azioni positive per l’imprenditoria femminile”, che prevedeva facilitazioni per le imprese guidate da donne (sia per quelle già esistenti sia ancora da avviare). All’articolo 3 si parla di un Fondo, la cui dotazione finanziaria era stabilita «in lire trenta miliardi per il triennio 1992-1994» cui attingere per la creazione di nuove realtà imprenditoriali con guida femminile. I finanziamenti tuttora sono rivolti per di più alle piccole imprese con meno di 50 dipendenti e possono essere di tre tipologie: finanziamento agevolato, a fondo perduto o credito d’imposta. I fondi vengono erogati in base a una graduatoria e i criteri che vengono valutati sono il tipo di progetto imprenditoriale, la zona d’Italia dove si ha intenzione di fare impresa, la somma richiesta, l’eventuale collegamento con progetti di sviluppo territoriali e il settore nel quale si è deciso di investire. Nella legge 215/92 sono indicati i macro settori per i quali si predilige l’erogazione: al primo posto il settore agricolo, seguito da manifatturiero, commerciale, turismo e servizi.

Ma dal 1992 a oggi la situazione non è migliorata. Anzi. Se per un imprenditore ricevere un prestito da una banca è paragonabile a una corsa a ostacoli, per una donna è come una scalata su una facciata liscia e ripida di una montagna. Alesina, Lotti, Mistrulli nel 2008 hanno dedicato uno studio al tema, analizzando la discriminazione di genere nell’accesso al credito. Il risultato è che «le donne pagano interessi più alti rispetto agli uomini». I tassi di interesse sui fidi richiesti dalle donne sono risultati più alti del 30%. «Abbiamo scoperto che quando la donna ha un garante uomo, il tasso d’interesse che viene applicato su di lei diminuisce», scrivono, «mentre se una donna ha un garante donna, il tasso di interesse è più alto». Con un rincaro dello 0,6 per cento. Certo, le banche guidate da donne sono meno propense ad applicare discriminazioni di genere, ma bisogna tenere in considerazione che la presenza di donne nella dirigenza delle banche italiane è molto ridotta.

«Il costo del denaro per le donne continua a essere più caro», spiega Sansoni, «nonostante dai vari studi fatti dagli istituti bancari le donne risultino più solvibili degli uomini». È un «atteggiamento non più attuale», ribadisce, «le imprenditrici oggi non sono più quelle di anni fa. Prima con il matrimonio o la nascita di un figlio le donne tendevano ad abbandonare l’attività. Oggi non è più così e un atteggiamento di questo tipo da parte degli istituti bancari non è più giustificato. Servono azioni forti: il prestito deve essere concesso in base a un’analisi del momento in cui si concede il credito. Non sul genere ma sull’impresa». 

Eppure, nonostante una ex presidente di Confindustria donna, «c’è ancora tanta difficoltà a pensare alle donne imprenditrici in maniera paritaria», racconta Maria Fermanelli, 57 anni e una laurea in architettura. «Vengo dal mondo dell’edilizia, un mondo di uomini», racconta. «Per vent’anni ho frequentato cantieri e diretto molti uomini». Poi dieci anni fa la decisione di abbandonare stucchi e cemento per creare “Cose dell’altro pane”, azienda che produce artigianalmente cibi senza glutine. L’attività è tutta al femminile: 12 dipendenti e cinque bambini nati in dieci anni di attività. Anche la location non è niente male. Panettoni, grissini, focacce e cornetti vengono prodotti nei vecchi forni di un monastero benedettino di Monte Mario. «Grazie anche ai finanziamenti della legge Bersani del 1997 per l’imprenditoria femminile», racconta orgogliosa Formanelli, «ho creato qualcosa che non c’era, ma devo ringraziare il fatto di essermi trovata a fare l’imprenditrice alla soglia dei 50 anni e con una famiglia già formata».

Con tante dipendenti donne, l’ex architetto sa quanto sia difficile conciliare lavoro, marito e bambini. «La parità sostanziale è ancora molto lontana nella gestione della vita quotidiana: perché se un bambino è malato non rimangono a casa anche i padri?», si chiede. «La mia azienda con una alta prevalenza femminile è penalizzata in una società in cui di fatto sono le donne a farsi carico del lavoro di cura della casa. Perché l’assenza di una lavoratrice donna deve esser percepita come meno grave di quella di un uomo?». È per questo, dice, «che ho preferito che gli ultimi due entrati in azienda fossero uomini». 

Cosa serve allora? «Serve un welfare per tutti», risponde la presidente di Cna impresa donna. «Basta parlare di genere, il welfare non è solo un problema del mondo femminile. Se crei più asili nido, non lo fai per la donna, lo fai anche per l’uomo». Lo dice anche Maria Fermanelli: «Serve una più profonda integrazione tra il mondo in cui si produce e il mondo in cui si riproduce la vita. Non possiamo solo produrre e, non appena non siamo più abili come prima, scatenare un macello». 

Entra nel club, sostieni Linkiesta!

X

Linkiesta senza pubblicità, 25 euro/anno invece di 60 euro.

Iscriviti a Linkiesta Club