Su un punto Beppe Grillo ha perfettamente ragione: il Paese è allo stremo. Le tre minoranze impotenti, come Michele Ainis ha definito ieri sul Corriere, Pd, Pdl e M5S, si trovano di fronte un’Italia altrettanto impotente. Lavoro, consumi, credito, Pil, produttività: si annaspa per rimanere a galla, senza successo. L’ultimo Bollettino economico della Banca d’Italia lascia poco spazio a dubbi, ancora meno ai sogni. Se è vero che la contrazione del Pil, nell’ultimo trimestre dell’anno scorso, è stata meno dirompente rispetto ai trimestri precedenti, assestandosi a -0,2%, è altrettanto vero che è stata trainata dalla «domanda estera netta, che ha sostenuto il prodotto per 0,6 punti percentuali», al contrario di quella interna, che scende senza soluzione di continuità ormai da due anni.
Sono due i dati che fotografano con chiarezza l’emergenza: le vendite di auto e il tasso di crescita dei salari reali. I dati del ministero dei Trasporti indicano evidenziano un calo delle immatricolazioni del 24,4% a giugno 2012 rispetto allo stesso periodo del 2011, cifra che porta a un totale di 1,4 milioni di immatricolazioni per l’anno scorso: il medesimo livello del 1979. Nel 2012 le retribuzioni – come ha certificato l’Istat – sono salite soltanto dell’1,5%, il minore aumento dal ’93 e la metà dell’inflazione. Il che si traduce, secondo i calcoli dell’associazione consumerista Codacons, in un’impoverimento di 524 euro per una famiglia composta da tre persone. Un impoverimento, spiega il rapporto “Reddito e condizioni di vita” curato dall’istituto guidato da Enrico Giovannini, che coinvolge tre italiani su dieci. Per la precisione il 28,4% della popolazione vive con un reddito disponibile equivalente (dopo i trasferimenti sociali) inferiore al 60% della media del reddito familiare in Italia.
Se i redditi di chi un lavoro ce l’ha non salgono, si allarga invece la platea degli inoccupati, che lo scorso dicembre ha toccato l’11,2%, +1,8% su base annua e ai massimi da gennaio 2004 su base mensile. A subire di più sono i giovani – 36,6%, +5% su base annua – 15-24enni, un esercito di 600mila persone che ha messo la X sul simbolo del Movimento 5 Stelle e di cui i sindacati non si sono mai occupati davvero. Una generazione dal futuro incerto, a cui si affiancano i 40enni sull’orlo del baratro fiscale – i nati nei 70’s pagheranno il 38% di tasse rispetto al 25% del 1950 su un reddito di 30-40mila euro – di cui ha dato conto qualche giorno fa il Wall Street Journal.
La risacca della crisi europea continua a trascinare al largo le imprese. Scrive Bankitalia: «La debolezza della domanda di lavoro dipendente si è riflessa sulle ore effettivamente lavorate, che si sono contratte di un punto percentuale nel confronto con l’anno precedente, anche attraverso un uso più esteso del part-time, una riduzione delle ore di straordinario e un maggior ricorso alla Cassa integrazione guadagni (CIG)». Tanto che nel terzo trimestre dell’anno scorso le posizioni a tempo parziale si sono assestate al 17,8% (+2% sul 2011) dell’occupazione dipendente, mentre in un anno le ore autorizzate di Cig sono salite del 22,3 per cento.
Nell’industria «sono state autorizzate circa 200 milioni di ore di CIG, che rappresentano quasi l’11 per cento delle unità di lavoro a tempo pieno equivalenti», riferisce ancora via Nazionale. Si salva soltanto chi esporta fuori dall’area euro: i Paesi più dinamici sono Giappone (+19,1%), Usa (+16,8%) e Svizzera (+10,8%), mentre in marcata flessione risultano le vendite verso India (-10,3%), Cina (-9,9%) e Spagna (-8,1%). Positivo per 11 miliardi anche il saldo commerciale a dicembre 2012: se un surplus così elevato non si vedeva dal ’99, è altrettanto vero che il dato nasconde una flessione degli acquisti del 5,7% sul 2011.
Buone notizie che non bastano a cancellare l’emorragia di imprese che hanno chiuso i battenti: 45mila dal 2009, oltre 12mila nel 2012 stando all’Osservatorio Cerved sulla crisi d’impresa (dati febbraio 2013), di cui il 5,2% nel settore dell’industria e il 4,6% in quello delle costruzioni. Un fenomeno che miete vittime lungo tutta la Penisola: tra il 2009 e il 2012 le Provincie che hanno registrato il più elevato numero di società di capitale che hanno portato i libri in tribunale sono Pordenone (5,9%), Teramo (5,3%), Ancona (4,9%), Vibo Valentia (4,8%). Chi sopravvive lo fa a fatica: il rapporto sulla manifattura pubblicato dal Centro studi di Confindustria lo scorso giugno indica che, tra il 2000 e il 2012, «la percentuale di imprese con ROI (ritorno sul capitale investito, ndr) superiore al 30% è scesa dal 6% al 2% e quella con ROI superiore al 10% è caduta dal 57% al 27%; l’incidenza di aziende con ROI negativo è salita dal 5% al 15%». Significa che solo in un caso su tre investendo un euro in un’impresa manifatturiera l’imprenditore ha guadagnato 10 centesimi.
Le difficoltà delle imprese erodono i bilanci delle banche, che prestano malvolentieri e a tassi parametrati all’elevato costo della raccolta all’ingrosso, come si evince dai rilievi dell’Abi, l’associazione bancaria italiana, dello scorso gennaio, scesi del 3,3% a quota 1,9 miliardi rispetto a dicembre 2012, mentre per Palazzo Koch a novembre 2012 il calo è del 4% per le imprese e dello 0,8% per le famiglie rispetto al medesimo periodo del 2011.
Nella sua consueta relazione all’Assiom Forex, il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, aveva espresso preoccupazione per l’aumento dei crediti dubbi nei libri degli istituti di credito: «Nel terzo trimestre del 2012 il tasso di ingresso in sofferenza è stato pari al 2,2 per cento per il totale della clientela, al 3,3 per i finanziamenti alle imprese. In novembre la quota dei prestiti ad aziende in temporanea difficoltà (incagli e prestiti ristrutturati) ha registrato un nuovo incremento».
I timori di via Nazionale riguardano il tasso di copertura dei crediti problematici, quelli che non sono momentaneamente recuperabili a causa di una difficoltà temporanea del debitore – gli incagli – e quelli che andranno perduti a causa dell’insolvenza del debitore, le sofferenze. E mentre gli istituti sono sotto la lente degli ispettori del Fmi, che stanno stilando il Financial sector assessment program, la revisione del sistema finanziario nazionale, le sofferenze nette – e i relativi accantonamenti che ne conseguiranno, sui quali Bankitalia sta conducendo una serrata moral suasion – sono salite (dati del bollettino mensile Abi di gennaio) «a quasi 62,2 miliardi di euro, circa 2,3 miliardi in più rispetto al mese precedente e quasi +11,6 miliardi rispetto a novembre 2011 (+22,9% l’incremento annuo)», ovvero il 3,23% degli impieghi totali (3,12% ad ottobre 2012 e 2,62% a novembre 2011).
In questo quadro, il prezzo finanziario dell’ingovernabilità è la balcanizzazione, cioè la rottura del meccanismo di trasmissione della politica monetaria che porta al progressivo isolamento dell’Italia nel proprio sistema finanziario. È sempre Bankitalia a registrare che «La raccolta complessiva sull’estero è rimasta tuttavia negativa: tra la fine di agosto e la fine di novembre le passività nette in pronti contro termine nei confronti di controparti centrali, che rappresentano transazioni interbancarie da operatori esteri, si sono ridotte di circa 15 miliardi; i depositi di non residenti sono diminuiti di circa 10 miliardi». Un segno tangibile che, nonostante le operazioni straordinarie di riacquisto dei titoli di Stato sul mercato secondario messe in campo dalla Bce, il rischio-Italia non si è attenuato, e non si attenuerà in futuro. Difficile, se non impossibile, trovare i soldi per la copertura finanziaria delle iniziative previste dalla grillonomics, tantomeno per rimborsare l’Imu.