Roma senza re, le successioni per Vaticano e Quirinale

Roma senza re, le successioni per Vaticano e Quirinale

Roma è sola, più sola e più triste. Nei due palazzi del potere che si guardano l’un l’altro dalle rive opposte del Tevere, due ottantenni attendono di uscire con l’onore delle armi. L’uno, l’inquilino del Quirinale, lo sa da sette anni, ma forse negli ultimi mesi ha accarezzato l’idea di restare ancora un po’, quanto meno per accompagnare un passaggio politico tra i più delicati. L’altro, nelle segrete stanze del Vaticano, violate da corvi e serpenti, lo ha meditato per almeno un anno. «È stato un gesto di grande coraggio», ha commentato Giorgio Napolitano che con Joseph Ratzinger aveva stabilito un feeling fatto anche di chimica personale, in fondo sono entrambi due uomini razionali, meticolosi, freddi, due intellettuali “prestati” alla politica l’uno, al governo della Chiesa l’altro.

Le due sedi semi vacanti, rendono Roma davvero più vuota. Verranno presto colmate, in un mese quella di Pietro, e non molto dopo anche quella presidenziale, tuttavia la transizione si fa in entrambi i casi enigmatica, segnata da un futuro incerto e da un presente lacerato da drammatiche scelte. Di più lunga durata quelle che riguardano la Chiesa cattolica, ma altrettanto importanti quelle per la presidenza della Repubblica.

Il Vaticano e il Quirinale non si limitano a guardarsi. Si sono a lungo sfidati, poi riconciliati, infine hanno trovato un modus vivendi, persino una sintonia. Si dice che è difficile fare il presidente contro il papa. E oggi è ancora vero. Ma i due colli sono da sempre i punti cardinali del potere romano, oggi smarrito, slabbrato, prostrato. In fondo, anche l’arresto di Giuseppe Orsi, presidente di Finmeccanica, manager lombardo, ma a capo di uno snodo chiave del rapporto tra industria, sicurezza, servizi segreti, politica, s’abbatte come un altro segno di sconfitta. Senza contare gli scandali che adesso, in questa atmosfera da fine regno, colpiscono l’Eni, architrave dell’industria pubblica. È un ennesimo ammaina bandiera del potere capitolino che già se l’era fatta de-romanizzare dal lungo regno di Paolo Scaroni e dalla discesa dei lumbard con Silvio Berlusconi.

Oggi, tutti coloro i quali hanno gridato Roma ladrona sono lì, con le mani nella marmellata. «Ci accusavano di essere curiali – protesta un tardo esponente del potere capitolino – ma se ci avessero lasciato muovere come sappiamo tra le due sponde del Tevere, l’Italia non sarebbe con le pezze al sedere, perché noi soli abbiamo il senso del sistema, di quel sistema che i barbari del nord prima volevano distruggere, poi hanno dominato senza saperlo gestire. Ed eccoci qua».

I due sommi colli sono stati direttamente o indirettamente la calamita di un mondo variegato che tiene insieme la cultura (quella alta e quella di massa come il cinema e la televisione), le banche e la politica. Già da tempo questa ragnatela si è lacerata. Prendiamo le banche. Ovunque in Italia sono lo snodo tra economia e politica, e lo scandalo Mps non fa che confermarlo. Ebbene, Roma non ha più una sua banca. Capitalia, nata dalla fusione tra S.Spirito, Cassa di risparmio e Banco di Roma, era stata gestita da Cesare Geronzi come stanza di compensazione degli interessi in conflitto, riuscendo a tenere insieme in qualche modo Berlusconi e D’Alema, Il Manifesto e Il Tempo, in un ardimentoso esercizio di composizione degli opposti. Oggi non esiste più. L’erede delle banche papaline è stata fagocitata da Unicredit, l’erede del massonico Credito Italiano, e così facendo è stata spersonalizzata e decomposta in nome di una modernità rivelatasi velleitaria e impotente.

Certo, in questo processo c’è anche l’ambizione dello stesso Geronzi, partito alla conquista dei poteri forti del nord. Ha avuto un ruolo importante nel decennio del dopo Cuccia, anche se ha dovuto trattare con Giovanni Bazoli e Giuseppe Guzzetti. È arrivato al vertice delle Assicurazioni Generali, santuario del potere laico-massonico centro-europeo. Ed è durato pochissimo, lo hanno defenestrato con quella che appare sempre più come una congiura di palazzo se è vero che il nuovo capo azienda, il napoletano Mario Greco, sta regolando i conti come avrebbe voluto in gran parte lo stesso Geronzi.

Attorno alla banca romana ruotava il mondo dei palazzinari. Anch’essi ora hanno preso strade diverse. Francesco Gaetano Caltagirone ha ampliato il raggio d’azione: sfuggito per il rotto della cuffia al crac Montepaschi, coltiva interessi al nord, in Generali, in Unicredit, con il Gazzettino di Venezia, mentre difende quelli capitolini (con Il Messaggero o l’Acea). Salini che lancia un’opa sulla milanese Impregilo, genera all’estero l’80% dei propri introiti. I più piccoli, come Toti o gli Angelucci, che Geronzi aveva fatto entrare nel suo salotto capitolino, s’aggirano inquieti come anime in pena.

Se ne sta silenzioso e acquattato Gianni Letta, figura archetipica del tessitore romano tra politica e affari. Qualcuno dice che si tiene in caldo per il Sommo Colle e senza dubbio è l’unico candidato possibile per il centrodestra. Il toto Quirinale allo stato attuale è pressoché impossibile. Molti sostengono che lo scandalo Mps, anche se ridimensionato a una storia di cattiva gestione e imbrogli finanziari (rubbagalline direbbero i romani), ha intaccato lo smalto di molti potenziali candidati da Giuliano Amato, lord protettore di Siena, a Massimo D’Alema, da Pier Ferdinando Casini per i legami con il suocero Caltagirone, allo stesso Romano Prodi magari solo perché al governo nel fatidico 2007 in cui Giuseppe Mussari lanciò il suo assalto al cielo, comprando Antonveneta senza averne i quattrini.

Quanto al toto papa, è un esercizio impossibile e per lo più inutile. Certo, la curia romana ha dato la peggiore dimostrazione di sé negli ultimi anni e anch’essa è destinata a essere ridimensionata, chiunque prenda la guida della barca di Pietro. 

Roma aspetta, con il pancione in perenne ebollizione, la sua plebe capace di far cadere gli imperatori, i suoi tribuni onnipotenti, i senatori preoccupati di mantenere il proprio seggio e dividersi gli appalti nel Affari del signor Giulio Cesare di Bertolt Brecht. I poteri romani, smarriti e sradicati, si ricomporranno prima o poi, ma ci vorrà tempo, soprattutto se arrivano un papa e un presidente “stranieri”. Roma avrà sempre bisogno di senatori, pontefici e tribuni, nemici e complici nello stesso tempo perché gestire il potere nell’urbe non ha niente a che vedere con la frenesia milanese né con quel giansenismo che divide nettamente il bene dal male. Ma forse per la prima volta, non potrà più vivere nell’illusione della propria eternità.
 

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