L’imam siriano Ahmed Moaz Khatib, attuale leader della Coalizione nazionale siriana, è stato in questo fine settimana sul punto di dimettersi dopo aver tentato di spiegare ai suoi le ragioni che lo hanno spinto a proporre il dialogo col regime di Damasco. La riunione che si è tenuta al Cairo si è chiusa con un nulla di fatto, ma certamente il ruolo di Khatib ne esce fortemente ridimensionato così come appare evidente la frattura che si è venuta a creare all’interno dell’opposizione tra chi cerca una via di uscita alla crisi come lui e l’ala più oltranzista dei Fratelli Musulmani, che respinge qualsiasi ipotesi di dialogo con Bashar al Assad.
La sua idea di aprire al dialogo col regime di Damasco, dicendosi favorevole ad un vertice al Cairo, a Istanbul o a Tunisi in cambio della liberazione di 160 mila detenuti politici arrestati dall’inizio della rivolta e del rinnovo dei passaporti per gli esuli siriani, ha sollevato un vespaio di polemiche. Si tratta di una iniziativa che sin dall’inizio non ha trovato d’accordo tutti i membri della Coalizione. Ieri infatti l’ufficio legislativo del gruppo e il direttivo del Consiglio nazionale siriano (Cns) l’hanno definita «frutto di una posizione del tutto personale di Khatib, in contrasto con lo statuto della Coalizione, che invece vieta qualsiasi dialogo con il regime di Damasco».
Si è detto invece favorevole a questa idea solo uno degli esponenti del Cns, Samir Satuf, intervistato ad Algeri dall’emittente Al Maiadin. Satuf ha spiegato di «essere favorevole, anche se ritengo che sia difficilmente realizzabile. Le condizioni poste da Khatib sono relativamente importanti, perché in realtà avremmo bisogno di un cessate il fuoco immediato». Secondo Satuf, oltretutto, il regime potrebbe avere difficoltà a liberare 160 mila detenuti, molti dei quali, ricorda l’esponente del Cns, sarebbero «morti nel corso dei mesi».
Più netta invece è stata la reazione di Haytham al Maleh, dirigente del Consiglio nazionale siriano, che all’emittente satellitare Al Arabiya ha spiegato: «l’idea di aprire al dialogo con il regime è unicamente di Khatib il quale non ci ha consultati prima di annunciare la sua proposta». Più morbida invece è la reazione di Abdel Ahad Stif, del direttivo della Coalizione nazionale siriana, il quale sostiene che «pur non essendo questa idea corrispondente ai principi della nostra coalizione, può essere certamente discussa. Bisogna evitare di fare il gioco di chi vuole dividere l’opposizione siriana usando questo pretesto».
Per difendersi dalle critiche Khatib ha spiegato che la sua iniziativa aveva come obiettivo quello di «ridurre le sofferenze del popolo in Siria». Intervistato dall’emittente araba Al Jazeera, in collegamento telefonico dal Cairo, l’imam di Damasco si è difeso dalle accuse di aver tradito i principi dell’opposizione con l’apertura al dialogo con Assad, spiegando che «non ci sono conflitti interni alla Coalizione e in particolare con i membri del Cns. Noi vogliamo solo cercare una via di uscita per aiutare il nostro popolo».
Secondo gli analisti arabi questa «fuga in avanti» di Khatib dimostra le difficoltà in cui versano i ribelli siriani. La sua idea viene definita «una bomba politica lanciata sulla scena siriana». È con queste parole che il direttore del quotidiano Al Quds al-Arabi, Abdel Bari Atwan, commenta la proposta del leader dell’opposizione. «Questa sua iniziativa ha incontrato forti resistenze all’interno del Consiglio nazionale siriano – spiega Atwan – il cui portavoce ha fatto sapere che si trattava di una posizione personale che non rappresenta la Coalizione nazionale siriana e che è in contrasto con il suo statuto approvato a Doha nel quale si parla della cacciata di Assad e di tutti i suoi gerarchi». «Altre fazioni – prosegue Atwan nell’editoriale – lo hanno accusato di tradimento, reazioni che lo hanno spinto a dichiarare di essere contro il terrorismo ideologico». Secondo l’editorialista, «le accuse di tradimento non sono nuove all’interno dell’opposizione ma sono parte fondamentale di essa e vengono lanciate contro chiunque abbia idee diverse».
Eppure Khatib ha lanciato questa nuova iniziativa «non perché è uno stupido o uno sprovveduto, ma perché si basa su quanto è emerso in un incontro che si è tenuto a Londra organizzato dal governo britannico dal titolo “Formare un governo nazionale al posto del regime” nel quale ha ascoltato le opinioni di tutti i partecipanti». Sono diversi, secondo Atwan, i motivi che hanno spinto Khatib a presentare questa idea che «forse lo porterà alle dimissioni dalla guida della Coalizione siriana e che certamente ha creato una spaccatura nel fronte dell’opposizione».
Tra i motivi che hanno spinto l’imam siriano ad aprirsi al dialogo col regime ci sarebbe «la scelta dell’occidente e in particolare degli Stati Uniti di non rifornire di armi i ribelli, la volontà del presidente statunitense Barack Obama con il suo secondo mandato presidenziale di porre fine alla stagione delle guerre, il fatto che si sia arrivati ad una fase di stallo nella guerra in Siria», ma anche, secondo Atwan, «il fatto che Russia e Iran abbiano sostenuto fino alla fine Damasco rischiando anche di entrare in una guerra mondiale, il successo dei gruppi jihadisti in Siria che crescono sempre di più e che riescono a dare servizi alla popolazione nelle zone liberate simili a quelli dei talebani in Afghanistan, e infine il fatto che i ministri degli Esteri della Lega Araba abbiano abbandonato la questione siriana».
Il leader dell’opposizione siriana sa bene che gli unici a conquistare qualche villaggio in questi mesi sono stati i miliziani che fanno capo ad al Qaeda, con i quali non potrà mai governare la futura Siria e che fanno sempre più paura all’occidente. Nella migliore delle ipotesi quindi, nel caso cioè di una caduta del regime di Assad in Siria, «scoppierà certamente un duro scontro tra i gruppi jihadisti e quelli laici dell’opposizione». Ne è convinto anche il leader dei salafiti giordani, Mohammed Shalabi, impegnato da mesi a reclutare e inviare giovani jihadisti in Siria a combattere contro le truppe di Damasco per conto del Fronte di Salvezza, gruppo legato ad al Qaeda. L’estremista islamico giordano, noto col nome di battaglia di Abu Sayaf, ha spiegato alla stampa di Amman che i combattenti del gruppo Fronte di salvezza, inserito di recente dagli Stati Uniti nella lista dei gruppi terroristi, si sono rifiutati di entrare a far parte dell’Esercito siriano libero, che gli offriva in cambio denaro e armi. «Per questo nel caso in cui dovesse cadere Assad – spiega Shalabi – l’Esercito libero e quanti contrastano le idee salafite, chiederanno subito alle milizie jihadiste di posare le armi, provocando un clima di scontro e la perdita di vite umane. Anche se non possiamo dire con esattezza cosa accadrà fino a quando non si verificherà questa eventualità».
Abu Sayaf ha trascorso decine di anni in carcere a causa delle sue attività di stampo salafita jihadista. Il 46enne leader islamico conferma che «le autorità giordane cercano di impedire ai giovani di andare in Siria a combattere e di attraversare il confine. Abbiamo cercato di parlare con le forze di sicurezza spiegando che non c’era nulla di male se i ragazzi vogliono andare a combattere contro Assad. Voi dite che noi vi creiamo problemi, allora lasciateci andare a combattere in Siria, ma loro temono che questi ragazzi possano poi tornare come hanno fatto i reduci dell’Afghanistan e proclamare qui la jihad».
Secondo i dati di Abu Sayaf, che vive nella città desertica di al Maan, sono 350 almeno i giordani che stanno combattendo in Siria e almeno 25 di essi sono morti, mentre altri 50 sono stati arrestati in Giordania prima che riuscissero a raggiungere la Siria. Alcuni di loro sono ora sotto processo davanti al tribunale di Amman, anche se le autorità giordane trattano bene i detenuti islamici in particolare dopo la Primavera araba.
In un villaggio della parte orientale della Siria la popolazione locale è già costretta ad applicare le più strette regole della sharia islamica. Secondo quanto riferisce il quotidiano arabo Al Quds al Arabi, gli estremisti islamici del Fronte di salvezza, che fa capo ad Al Qaeda, hanno assunto il controllo dell’area imponendo alla popolazione locale di indossare solo abiti lunghi e larghi, vietando alle donne l’uso dei pantaloni e costringendole a portare il velo. Si tratta di un villaggio di 54 mila abitanti che si affaccia sull’Eufrate. Tra le decine di milizie armate quella del Fronte di salvezza è ormai la più attiva. È la milizia che ha ottenuto le vittorie più importanti contro le truppe del regime e che riesce a reclutare sempre più adepti. Il villaggio occupato è quello di Al Maiadin e vi risiedono molti reduci della guerra in Iraq. Le forze del regime hanno abbandonato la zona lo scorso novembre insieme alla metà della popolazione. Al momento nell’area vi sono anche altre milizie oltre al Fronte di salvezza, in particolare gruppi dell’Esercito libero. Oltre a vietare alcolici, si tengono corsi ai giovani su come combattere il jihad contro il regime di Bashar al Assad.
Nonostante il rafforzamento del fronte jihadista nel complesso, i ribelli ancora oggi, a quasi due anni dall’inizio della rivolta, non controllano ancora le città più importanti del Paese. Per questo anche l’inviato speciale dell’Onu per la Siria, Lakhdar Brahimi, parla di una fase di stallo nella guerra in Siria e si dice convinto del fatto che «non ci potrà essere salvezza per il Paese mediorientale senza l’intervento del Consiglio di sicurezza dell’Onu». In un’intervista al quotidiano arabo Al Hayat, Brahimi non si sbilancia sul contenuto della proposta in sei punti portata al Consiglio di sicurezza, ma conferma che «uno di questi è l’immediato cessate il fuoco, il quale, però, non dove essere fine a se stesso, ma deve rientrare in un piano più ampio». Brahimi sostiene di aver visto qualche apertura nei tre incontri avuti con gli Usa e la Russia e spiega che «la palla ora passa a loro. Io da solo non posso risolvere la crisi, tutto è nelle mani del Consiglio di sicurezza». L’inviato speciale dell’Onu per la Siria ha poi aggiunto di «temere che il Paese possa essere diviso» e ha confermato che «se vengono commessi dei crimini e ci sono episodi come il raid aereo sull’università di Aleppo, che meritano di essere indagati, è giusto che si apra un’indagine internazionale per punire i responsabili».
A indebolire la posizione dei ribelli, rafforzando quella di Assad, è stato anche il raid aereo israeliano di due giorni fa in Siria, che ha provocato due morti e cinque feriti. I caccia hanno bombardato il centro di ricerche militari di Jamraya, al confine tra Libano e Siria. La struttura, secondo fonti del regime siriano, è stata gravemente danneggiata. Per il governo di Damasco i caccia-bombardieri israeliani sarebbero entrati nello spazio aereo passando a nord del Monte Hermon (localizzato al confine tra Libano e Siria) volando a bassa quota per non essere intercettati dai radar. Immediata è arrivata la condanna delle milizie sciite libanesi Hezbollah. In una nota, diffusa dall’emittente televisiva libanese Al Manar, si legge che «Hezbollah condanna con forza l’attacco sionista contro la Siria».
Secondo il gruppo sciita «questo nuovo attacco palesa in modo evidente l’intento di distruggere la Siria e il suo esercito per il ruolo avuto nel sostegno alla resistenza contro Israele». Gli esponenti di Hezbollah chiedono inoltre alla comunità internazionale e ai Paesi arabi di condannare con forza questo episodio. Politicamente più rilevante è stata la posizione espressa dal premier iracheno, Nouri al Maliki, secondo il quale «il raid aereo effettuato dai caccia israeliani nella notte tra martedì e mercoledì scorsi contro obiettivi siriani è un atto di ostilità e di umiliazione nei confronti degli arabi e dei musulmani». Parlando all’emittente libanese Al Maiadin ha affermato che «se gli arabi avessero una posizione unitaria e salda Israele non avrebbe attaccato». Il primo ministro di Baghdad si chiede infine «dove siano gli arabi, perché non fanno nulla? Israele ha sfruttato questa situazione di divisione tra gli arabi e tra i siriani per sferrare il suo attacco. Gli arabi ora non devono lasciare Damasco da sola».