Si sta per aprire il Conclave e, come otto anni fa, quando fu eletto Joseph Ratzinger, si parla di tentativi esterni per condizionare l’elezione del futuro Pontefice. La segreteria di Stato della Santa Sede ha pubblicato sabato 23 febbraio un comunicato in cui si deplora che «nel corso dei secoli i cardinali hanno dovuto far fronte a molteplici forme di pressione, esercitate sui singoli elettori e sullo stesso Collegio, che avevano come fine quello di condizionarne le decisioni, piegandole a logiche di tipo politico o mondano». È l’antica rivendicazione della libertà e dell’indipendenza dell’ecclesiae Christi. «Se in passato – si legge nella nota – sono state le cosiddette potenze, cioè gli Stati, a cercare di far valere il proprio condizionamento nell’elezione del Papa, oggi si tenta di mettere in gioco il peso dell’opinione pubblica, spesso sulla base di valutazioni che non colgono l’aspetto tipicamente spirituale del momento che la Chiesa sta vivendo».
Quanto abbia pesato in questo pronunciamento della segreteria di Stato di Tarcisio Bertone quello che Massimo Franco chiama «giustizialismo ecclesiastico», cioè una sorta di «Mani pulite» vaticana a livello globale, non è facile dire. Nelle ultime ore, il cardinale Roger Mahony, l’arcivescovo emerito di Los Angeles accusato di aver coperto i preti pedofili e per questo oggetto di una campagna mediatica perché non partecipi al Conclave e all’elezione del successore di Benedetto XVI, ha assicurato su Twitter che lui in Conclave «ci sarà», con buona pace di chi sostiene la tesi di un complotto internazionale che parte dall’esterno. Certo, dalla rinuncia di Benedetto XVI, l’ombra degli scandali, i sospetti di pedofilia, le convulsioni dello Ior, le carte trafugate e i documenti del cosiddetto «Vatileaks» sono entrati prepotentemente nel dibattito vaticano, modificando la fisionomia e i rapporti di forza fra i 117 cardinali che eleggeranno il nuovo Papa.
Si è parlato con insistenza di un rapporto segreto che i tre cardinali Julian Herranz, Jozef Tomko e Salvatore De Giorgi, membri della commissione d’inchiesta sul «Vatileaks», avrebbero consegnato a Benedetto XVI il 18 dicembre 2012, durante un’udienza appena menzionata nella sala stampa vaticana. Sotto la lente d’ingrandimento dei tre cardinali incaricati da Joseph Ratzinger di far luce sulla fuga di notizie riservate non ci sarebbe soltanto il trafugamento delle carte dalla segreteria papale, ma anche lo stato dei rapporti interni alla Curia romana, la questione delle tensioni esistenti, il ruolo dei personaggi citati nei documenti pubblicati.
In vista della prossima elezione, queste pressioni faranno certamente sentire il loro peso. Ma sia ben chiaro: non è questione di oggi. Unica monarchia elettiva dell’Europa moderna, la Chiesa cattolica ha difeso per secoli la libertà di eleggere fra i propri principi porporati, i cardinali, il successore del pontefice defunto. Unica istituzione mondiale a prevedere l’elezione del proprio vertice all’interno di un ambito ristretto, la Chiesa ha dovuto dotarsi nel corso dei secoli degli strumenti atti ad assicurare la successione evitando pericolosi vuoti di potere.
La convinzione profonda che sia lo Spirito a guidare la Chiesa nei periodi di vacanza della sede apostolica non ha però impedito nel corso della storia ingerenze nella libertà del conclave. Nell’intonazione del Veni Creator Spiritus i cardinali elettori hanno tradizionalmente identificato la garanzia di libertà e di indipendenza del ministero petrino. Ma un conclave è il luogo in cui emergono, e vengono portate alle estreme conseguenze, tutte le idealità, le tensioni, le spinte ecclesiologiche del pontificato che lo ha preceduto. Quello che si apre a giorni è però un Conclave inedito nella storia della Chiesa contemporanea. Inedita è la rinunzia di Benedetto XVI, questa scelta umile di un uomo infermo che nasconde una forte lotta di potere all’interno della Curia romana.
Vi sono stati, nella storia della Chiesa, conclavi brevi, di pochi giorni appena, e conclavi interminabili, durati anche anni. Vi sono stati conclavi improvvisi e pieni di incognite e conclavi annunciati, preparati, attesi per più di dieci anni. Ogni Conclave segna l’alfa e l’omega, l’inizio e la fine di una determinata esperienza ecclesiale, ma rappresenta al tempo stesso anche una inevitabile crisi di passaggio nella transizione di potere all’interno della Chiesa. La stessa riflessione ecclesiologica riconosce d’altronde che l’azione dello Spirito «scrive dritto per linee storte» e che la Chiesa di Cristo è un’istituzione divina governata da esseri umani. Come dire che lo Spirito esclude o premia a seconda di piani imperscrutabili e disegni che si rivelano poi con il tempo.
Vi sono stati Conclavi che hanno segnato grandi svolte, come quella fra il pontificato di Leone XIII e di Pio X, quando il veto dell’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe fece la sua irruzione nella clausura della Cappella Sistina, impedendo l’elezione del cardinale Mariano Rampolla del Tindaro, Segretario di Stato del defunto pontefice. «Un segretario di Stato non diventa mai papa», si disse in quella circostanza, e da allora questa affermazione non è ancora stata smentita. Sono svolte che si basano sulla capacità e la volontà dei cardinali di dichiarare chiusa una stagione, come è successo anche nel Conclave del 1958 fra Pio XII e Giovanni XXIII o in quello del 1978 fra Paolo VI e Giovanni Paolo II.
L’istituto conclavario vive quindi nella storia, e dalla storia della Chiesa è plasmato e condizionato. Esso non è soltanto un collaudato meccanismo per produrre Papi. Nelle procedure di elezione del successore di Pietro si riflette la collegialità dell’intera istituzione che egli rappresenta in quella determinata fase storica. Un conclave può quindi segnare un momento di brusca rottura con il ministero petrino che lo ha preceduto, così come può assicurare attraverso il nuovo eletto una continuità nel cambiamento. Può confermare gli equilibri emersi nell’ultima fase del pontificato appena terminato, così come produrne di nuovi e inattesi attraverso l’immissione e il recupero di forze ecclesiali emergenti o precedentemente marginali.
In molti conclavi dell’ancien régime le ingerenze dei poteri politici sono state così forti ed evidenti da minare alla base la libertà stessa della Chiesa cattolica. Molti conclavi furono pervasi in maniera evidente dal soffio dello Spirito, altri infestati dalla mondanità del secolo che faceva irruzione nel Sacro Collegio. Una mondanità così violenta da far scrivere nel 1828 a François-René de Chateaubriand, allora ambasciatore francese a Roma, a proposito dei cardinali elettori che «non cercano certo l’interesse generale della Chiesa, ma l’interesse particolare dei singoli individui e delle loro famiglie di provenienza, che cercano di conquistare denaro e potere attraverso l’elezione del capo della Chiesa».
La vicenda istituzionale di questi momenti apicali della vita interna della Chiesa di Roma ha sempre suscitato interesse e curiosità, anche a causa di alcune peculiarità procedurali che fanno dell’istituto conclavario un caso unico: la clausura dei cardinali, l’obbligo di segretezza assoluta, la mancanza di comunicazione con l’esterno, la fumata nera o bianca che accompagna ogni scrutinio. Anche l’elasticità del termine conclave costituisce motivo di attenzione: derivato dal latino cumclavis (camera o ambiente chiuso a chiave), esso indica al tempo stesso il luogo e l’atto dell’elezione del papa da parte dei cardinali riuniti nel Sacro Collegio. Fu a Perugia nel 1216 che i cardinali elettori vissero per la prima volta la clausura: durante l’elezione del successore di Innocenzo III, i cittadini della città umbra costrinsero infatti i diciannove membri del Sacro Collegio a una permanenza forzata nel palazzo pontificio per accelerare i tempi di nomina del nuovo papa. In tale modo, dopo soltanto due giorni risultò eletto Cencio dei conti Savelli, che regnò 11 anni con il nome di Onorio III.
Anche in anni recenti, come ad esempio nel Conclave del 1978, la Santa Sede ha continuato a rappresentare un centro di osservazione privilegiato per forze esterne alle Mura Leonine, che hanno fatto ricorso a ogni mezzo, indagando, spiando, intercettando, sorvegliando, pur di raccogliere informazioni e sfruttare a proprio vantaggio i delicati equilibri interni. Condizionare gli esiti del Conclave diventa così, per qualsiasi potere, un’impresa seducente. E basterebbe questo a spiegare l’isolamento e il vincolo di segretezza che ne regolano da secoli lo svolgimento. Nel Conclave del 1903, la sfida del telefono fece per la prima volta la sua irruzione nei Sacri Palazzi. Come ho riportato nel mio “Conclave e potere politico” (Studium, 2004), l’allora cardinal Camerlengo Oreglia di Santo Stefano pose subito la questione del telefono: «se debba funzionare durante il Conclave, avuto riguardo al segreto assolutamente indispensabile e imposto dalle leggi canoniche». Nel prossimo Conclave, la sfida sarà Twitter: il divieto del Vaticano colpirà i nove porporati attivi sul social network, dall’arcivescovo di Milano Angelo Scola all’arcivescovo di New York Timothy Dolan, passando per Gianfranco Ravasi, Lluís Martínez Sistach, Roger Mahony, Séan Patrick O’Malley, Odilo Scherer, Rubén Salazar Gómez, Wilfrid Napier.
È evidente che nell’era della tecnologia qualche rischio in più c’è per la segretezza e la rivendicazione dell’indipendenza nelle procedure d’elezione del Romano Pontefice. Il che assegna addirittura una certa «suspense tecnologica» all’imminente capitolo elettorale, alle sue fratture sotterranee e alle sue lotte di potere fra schieramenti avversari.