Di frecce ne sono rimaste poche. È questa la sensazione a guardare i conti di Telecom. I dividendi sono ridotti al minimo sindacale – 450 milioni, 2 centesimi per le ordinarie e 3 per le risparmio, la metà rispetto al 2011, che già aveva subito un calo del 23% sul 2010, e dire che nel precedente piano industriale si prevedeva una crescita del 15% l’anno – e andranno interamente a servizio degli interessi sul debito di Telco, la holding di controllo partecipata da Telefonica, Mediobanca, Generali e Intesa Sanpaolo.
Il debito rimane pericolosamente vicino ai 30 miliardi. Lo scorporo della rete in rame è congelato causa elezioni. E sul tavolo ci sono due grossi due nodi da sciogliere: la cessione di TI Media e la strategia per rimanere a galla in mercato domestico maturo. Una situazione che lascia pochi margini di manovra, soprattutto quando i ricavi sono piatti (29 miliardi, +0,5% sul 2012) e gli interessi sul debito, da soli, pesano per circa 1,5 miliardi. Sulla rete fissa i ricavi sono stati pari a 13 miliardi (-5,2% sul 2011), mentre Tim ha lasciato sul terreno il 7% sul 2011, scendendo a quota 7 miliardi.
Il piano industriale prevede 5,3 miliardi di investimenti l’anno da qui al 2015. Finanziarli senza emettere nuovo debito, sebbene il flusso di cassa al netto delle operazioni straordinarie sia cresciuto di un miliardo in un anno – da 1,2 a 2 miliardi – è una mission impossible. E dunque si tagliano i costi in Italia per 1,3 miliardi nel triennio si emette un bond ibrido da 3 miliardi e si cercano altre leve per non rimanere schiacciati dal macigno del debito. Alla luce di tutto ciò va letta la lettera recapitata all’Agcom, l’autorità per le garanzie nelle comunicazioni, dalla direzione generale telecomunicazioni della Commissione europea, nella quale «si esprimono dubbi relativi al provvedimento che stabilisce le tariffe dei servizi di interconnessione su rete fissa in modalità Ip (Internet Protocol)», soprattutto per quanto riguarda «il percorso di discesa dei prezzi (glide path) previsto per il prezzo dei servizi di terminazione vocale in modalità Ip».
Telecom ha tutto l’interesse a rallentare il passaggio dall’interconnessione Tdm (time division multiplexing) a quella Ip, un processo graduale che si concluderà nel 2016. Ovvero dal doppino alla centrale telefonica che trasforma in dati la nostra voce all’utilizzo del bitstream (la tecnologia dell’Adsl). Perché? Su 1,6 miliardi di euro di fatturato dell’interconnessione in Italia, a Telecom va circa un centinaio di milioni. Fino al 2011, Telecom faceva pagare gli altri operatori 50 centesimi al minuto – dal nodo da cui parte la chiamata al nodo che la riceve – rispetto ai 27 centesimi pagati da lei. Nel 2012 la musica è cambiata: in base a una direttiva europea, il costo è diventato di 27 centesimi per tutti gli operatori. Con il passaggio all’Ip non solo il costo all’ingrosso scenderà da 27 a 0,4 centesimi, ma ci sarà una «sostanziale riduzione del numero dei bacini di raccolta/terminazione (aree gateway) per l’interconnessione alla rete di Telecom Italia, i quali passano dagli attuali 660 circa a 16 (corrispondenti a 32 nodi di interconnessione ridondanti, 2 per ogni area) grazie alla maggiore efficienza delle reti IP», come si legge nella delibera Agcom del 3 novembre 2011. E dunque Telecom non potrà più scaricare sugli altri operatori i costi dei bacini di terminazione.
Caso diverso è l’unbundling, cioè il servizio che consente agli operatori diversi da Telecom Italia e che non possiedono una propria rete di accesso di offrire voce a dati ai propri clienti affittando l’ultimo miglio, ovvero il collegamento in rame che si sviluppa da casa dell’utente alla prima centrale telefonica. In questo caso la tariffa è di 9,67 euro l’anno perché il regolatore riconosce un valore non di mercato alla rete. Sulla cui cessione è in corso – per modo di dire – una trattativa con la Cassa depositi e prestiti.
Chi vivrà vedrà. Sta di fatto che per i soci di Telco l’investimento nell’ex monopolista è ogni giorno più oneroso. Oltre agli spagnoli di Telefonica e al Leone di Trieste, Mediobanca e Intesa Sanpaolo l’anno scorso si sono impegnati a versare 70 milioni e impegnarsi per 203 milioni di euro circa, tra aumento di capitale e prestito obbligazionario. Peccato che nelle casse della holding entreranno dividendi pari a 60 milioni di euro (0,2 centesimi per 3 miliardi di titoli). La metà di quanto se ne va in spesa per interessi sul debito, pari a circa 120 milioni di euro (il tasso medio sul miliardo di debito è del 3,9%). I ricavi di Brasile e Argentina – 134 e 564 milioni di euro – fanno sorridere il management, ma non basteranno se gli investimenti non daranno buoni frutti. Molto dipenderà dal nuovo esecutivo.