Noi, agnostici o credenti, troppo vicini a Roma per non rimanere sconcertati davanti alla potenza simbolica delle dimissioni di un papa, che rivendica il suo diritto ad andare in pensione o, secondo altre interpretazioni, di fare una fuga in avanti per non rimanere intrappolato nelle sabbie mobili della curia romana. E loro, fedeli e missionari, che invece stanno ai confini del mondo, del nostro mondo, in comunità remote, sotto assedio, pericolanti, e assistono alla fine del pontificato di Benedetto XVI con stupita, ma serena accettazione, e disincanto teologico.
Lontano da Roma, il gesto del primo papa dimissionario dell’era moderna, non sembra aver tracciato, per ora, alcun solco. Almeno a giudicare dalle testimonianze dei missionari di diversi ordini religiosi raggiunti da Linkiesta. «È stata una grande sorpresa», spiega padre Sebastiano D’Ambra, missionario del Pime, da 35 anni nelle Filippine, dove vivono 70 milioni di cattolici. Sull’isola di Mindanao, musulmana, tesse i fili del dialogo con la comunità islamica. «Molti mi hanno chiesto il motivo della sua rinuncia, ovvio, ma la reazione dei cristiani è stata, per usare un termine locale, bahala, e cioè una serena accettazione. Per quanto mi riguarda, appena ho saputo, ho osservato un momento di silenzio, ma trovo che la scelta del Santo Padre sia comprensibile, logica, frutto della sua umiltà e della sua capacità di ammettere la propria dolente umanità».
Così la pensano, pare, anche i nuovi cristiani, da poco evangelizzati, in Cina. Dove padre Mario Marazzi, missionario del Pime, fa il volontario in un’associazione per la cura dei disabili psichici a Guangzhou, senza attirare l’attenzione del governo né fare troppi proselitismi. «Come occidentale, mi fa impressione pensare che l’annuncio del ritiro del papa sia avvenuto il terzo giorno del nuovo anno cinese del serpente», scherza, «ma proprio oggi ne ho parlato con due donne, battezzate recentemente. Come tutti i cattolici cinesi, provano devozione verso Benedetto XVI, ma sono troppo lontani dall’Europa, troppo giovani, da un punto di vista evangelico, per poter interiorizzare la storia della Chiesa. Perciò credo che siano rimasti sorpresi, colpiti, certo, e fanno domande, chiedono i motivi della sua scelta, ma contemporaneamente fanno fatica a comprendere la portata storica dell’evento».
Forse dipende anche dalla cultura orientale, più incline a una sorta di fatalismo, che osserva gli eventi oltre il suo significato specifico, momentaneo e contemporaneo, ma, come conferma un altro missionario del Pime, padre Franco Cumbo, superiore provinciale della missione di Hong Kong, «è impossibile pretendere che in Asia i cattolici siano papacentrici. Indipendentemente dal carisma di ogni singolo pontefice, per loro, il papa, è solo una gigantografia appesa a un muro e non trovano così stupefacente che si possa ritirare». Come molti altri sacerdoti, padre Cumbo prova rispetto per la finitezza umana di Benedetto XVI, che lo ha condotto al punto di ammettere di non farcela più a sopportare il peso del dicastero petrino, considera il suo gesto un atto evangelico di libertà, ma ai suoi fedeli dice solo che è troppo stanco. A giudicare quindi dalle prime reazioni dei fedeli, e in parte anche dei missionari, troppo lontani dal cuore del vecchio continente, morto o pensionato che sia, di papa se ne fa un altro. Infatti nelle Filippine, dopo le riverenti domande dei cristiani sulla scelta di papa Ratzinger, tutti si sono subito proiettati verso il futuro. Nella speranza che il prossimo papa possa essere l’arcivescovo metropolita di Manila, Luis Antonio Gokim Tagle, considerato uno dei candidati al soglio pontificio, che possiede quelle doti ritenute determinati per ridare vigore al cammino della Chiesa: gioventù (ha solo 56 anni) e l’energia necessaria a rilanciare il pontificato.
Così, anche in Anatolia, dove padre Domenico Bertogli, frate cappuccino, vigile custode della piccola parrocchia San Pietro e Paolo di Antiochia, commosso dal gesto del papa che secondo lui ha avuto il coraggio di mostrare al mondo la sua fragilità, non ha registrato un grande sconcerto. Anche perché come in altre piccole comunità ( qui ci sono 80 cattolici su un migliaio di abitanti) assediate, pericolanti, ci sono altre priorità. Come mantenere il dialogo con gli ortodossi, sorvegliare con preoccupazione i conflitti ai confini con la Siria, difendersi dalle intimidazioni o dal rischio di attentati. «Tutti mi chiedono perché, perché, perché», dice a Linkiesta. «E io rispondo con semplicità, spiegando che il papa è stanco. Lui è stato un grande pontefice, un martire che si è assunto tutte le responsabilità, ma la Chiesa non si ferma con lui. Certo, oggi ho ricevuto degli ortodossi, che facevano fatica a capire il senso del suo gesto, ma da qui è difficile capire quanto abbia sofferto».
Noi, partecipi o spettatori, che ci interroghiamo sui segni dei tempi, sullo spirito dei tempi, Der Zeitgeist, e indugiamo nelle analisi del contenuto implicito del renuntiio papale. E loro che, per quantità numerica o per forza vocazionale, ormai rappresentano l’ossatura della comunità cattolica. Davanti alle dimissioni del papa, i credenti africani non mostrano espressioni di inconsolabile sconcerto, come invece è successo in piazza San Pietro lunedì scorso, quando i fedeli si aggiravano con quello sguardo di chi non sa più dove finisce la terra e dove comincia il cielo. Almeno a giudicare dai racconti dei missionari o dai resoconti dell’agenzia di stampa missionaria Misna, diretta da padre Carmine Curci. Neanche nel Sudan, dilaniato da una lunga guerra civile, dove i cristiani rimasti al Nord, dopo la scissione del paese, sono tormentati dai musulmani. E dove padre Daniele Moschetti, superiore provinciale della comunità comboniana di Juba, la capitale meridionale, spiega la reazione contraddittoria dei fedeli. «Da una parte, per ragioni culturali considerano che il papa, in quanto capotribù della comunità cattolica, non possa mai smettere di essere tale. Dall’altra, seppur stupiti, vivono una diversa dimensione della fede che prescinde da logiche di potere. E pensano che per la Chiesa sia arrivato il momento di cambiare pagina. Perciò sia per la comunità cristiana sia per la società civile, il gesto del pontefice è un insegnamento per tutti».
Certo, dalla Nigeria spesso teatro di scontri fra musulmani e cristiani, (per usare un eufemismo viste le stragi compiute nel nord del Paese contro i cattolici dagli integralisti islamici di Boko Haram), arriva la testimonianza del vescovo di Jos, monsignor Ignatius Ayau Kaigama che ai giornalisti dell’agenzia stampa Misna, ha raccontato: «Le dimissioni del Papa sono state uno choc. Continuo a ricevere telefonate dalla gente comune, da cattolici, ma anche esponenti di altre confessioni cristiane e musulmani. Vogliono sapere che cosa accade nella Chiesa, se ci sono dei problemi. Io spiego che la decisione di Benedetto XVI è legata alla sua età e alle sue condizioni di salute». E sì, certo, anche in SudAfrica all’emittente cattolica Veritas, i telefoni sono roventi: arrivano richieste di aiuto per capire cosa sia successo in Vaticano, manifestazioni di cordoglio, stupore e ammirazione. In ogni caso per gli africani, come per gli asiatici, loro non si arrovellano, come noi, che non concepiamo una storia fuori dalla nostra storia, prevale soprattutto la speranza di una Chiesa nuova, rinnovata, che si adegui ai ritmi della contemporaneità. Con un pontefice, che provenga dai confini del mondo.