Dopo tutto il casino (citazione) fatto per avere Crozza sul palco, le polemiche, l’audience, i fischi, i soliti contestatori e compagnia dicendo. Dopo tutto questo, resta una domanda: perché sono scomparse le canzoni dal festival di Sanremo? E, ancora: perché l’Italia non si attiene più all’ormai obsoleto concetto di semplicità? Perché ciascuno non fa il proprio mestiere?
E che sarà mai, qualcuno potrebbe obiettare, in fondo è un Festival, mica un simposio di filosofia sul senso della vita. Vero, è un festival, il festival della canzone italiana appunto. Un capitolo piuttosto rilevante della storia del costume di questo Paese (essì, rassegnatevi, cari snob in perenne attività). Su quel palco si sono scritte pagine rimaste scolpite nel vissuto dell’Italia. Domenico Modugno, Claudio Villa, Nilla Pizzi. Luigi Tenco. Ma anche Vasco Rossi, Zucchero, Laura Pausini. Eccetera eccetera. Potremmo proseguire all’infinito.
Si chiama tradizione. Che ci piaccia o no. E Sanremo aveva una sua liturgia. I fiori, il palco, il presentatore o la presentatrice, le eventuali vallette o valletti, i cantanti, le canzoni (sì, le canzoni). E da casa ci si divideva, si faceva il tifo. Si discuteva ovviamente degli abiti degli artisti e delle presentatrici. Insomma, una roba semplice, classica. Il format, per dirla alla contemporanea, più o meno funzionava. Del resto che la competizione canora piacesse agli italiani è confermato dal successo di questi anni di X Factor. Sì, le sfide, le gare ci appassionano. Ci piace osservare l’emozione di chi vince, le lacrime di chi perde, la rabbia di chi è convinto di aver subito un torto. Così come ci piace spettegolare sui vestiti, riconoscere i plagi che ogni canzone (ieri praticamente quasi tutte) rivela di aver commesso, scommettere su chi possa essere eliminato e chi no.
Insomma, nulla di trascendentale. Ma perché privarcene? Perché trasformare il festival della canzone italiana in qualcos’altro? Ieri sera abbiamo ascoltato la miseria di sette cantanti sette. Quattordici canzoni. Perché quest’anno, non si sa perché, ciascuno ne canta due e una viene eliminata dal televoto. E vabbè. Ma in tre ore di trasmissione, quattordici canzoni equivalgono a una canzone ogni tredici minuti. Un’enormità. È come se in una partita di calcio si colpisse il pallone una volta ogni cinque minuti. E il resto del tempo che facciamo?
Guardiamo le altre trasmissioni che sono state dirottate su Sanremo. Guardiamo Che tempo che fa con le gag tra Fabio Fazio e Luciana Littizzetto; guardiamo Ballarò con l’angolo (ieri a dire il vero una circonferenza, non finiva più) di Crozza; guardiamo Carramba che sorpresa con il ritorno dopo evi di Toto Cutugno. Tutti con lo stesso identico e ostentato desiderio di stupire, di lasciare il segno. Perché poi, altrimenti, di cosa si parla?
Col risultato che finisce tutto in un frullatore e alla fine resta poco. Resta la contestazione – spontanea o organizzata che sia – a Crozza e al suo voler parlare ancora di politica in un Paese che per ventiquattro ore al giorno e 365 al giorno all’anno non fa altro. Qualcuno ricordi a Crozza che anni fa, sul palco dell’Ariston, destò molto più scalpore Mario Appignani, scomparso leader degli indiani metropolitani, fisicamente e magistralmente tenuto a freno da un immenso Pippo Baudo.
Col risultato, dicevamo, che finiscono col perdersi anche le trovate intelligenti ed efficaci come quella dei due omosessuali che illustrano la storia d’amore senza parlare ma solo mostrando frasi disegnate su cartoncini. E col risultato che delle canzoni non parla nessuno. Nemmeno di quelle che magari potrebbero aprire un dibattito, seppure il solito, come il brano di Daniele Silvestri. Siamo ridotti, invece, a imbarazzanti paragoni storici richiamati dall’Armata rossa dell’italiano vero.
Non a caso l’unico momento in cui sembra di stare veramente a Sanremo è quando vengono presentati i cantanti. Autore, titolo della canzone, nome dell’artista e a seguire del direttore d’orchestra. Bello, secco. Ti viene quasi di fare un sospiro di sollievo. Stiamo ai classici, direbbe qualcuno. Oppure se proprio vogliamo innovare, allora innoviamo per davvero. Ma non gettiamo nel Festival ritagli e frattaglie di altre trasmissioni. Non offendiamo il festival con sketch rimasticati e offerti al pubblico già in altre salse. Oppure, ancora, togliamo la dicitura “festival della canzone italiana”. Ecco, forse è meglio così.